giovedì 8 gennaio 2009

La fatica di educare alla fede


La Chiesa che vive in America Latina, e in particolare la Chiesa che vive in Brasile, è da tempo al centro dell’interesse degli studiosi della storia più recente della Chiesa. Una parte consistente del futuro della Chiesa si gioca proprio in questo Continente. Quale è il presente e, soprattutto quale sarà il futuro della chiesa brasiliana? Lo chiediamo a Mons. Ottorino che ringraziamo per la sua cortese disponibilità.

Prima di tutto le chiediamo alcuni ricordi significativi degli anni della sua adolescenza

Fra i ricordi piú importanti, metto al primo posto l’ambiente dove sono nato, S. Pantaleone, con la sua bellezza paesaggistica, la semplicitá di vita e la forte espressione di religiosità che ha marcato la mia vita. Nonostante fossi ancora piccolo, ho Il ricordo delle celebrazioni del mese di maggio, del passaggio della Madonna pellegrina, della catechesi, della feste che vedevano Il concorso di tutta la comunità.
Nel 1955 la mia famiglia si è trasferita a Scanzo: qui ho vissuto in modo pieno la mia adolescenza, frequentando giomalmente l’oratorio e inserendomi nel servizio liturgico. Anche durante gli anni del Seminario, la Parrocchia di Scanzo, con i suoi Sacerdoti (fra i quali ricordo Don Francesco Morelli che mi ha incamminato al Seminario) é stata il punto forte di riferimento. La Congregazione della Sacra Famiglia, con sede in Martinengo, é stato Il punto di approdo provvidenziale che ha determinato le mie scelte, la mia spiritualità,la mia passione per il Regno di Dio nel carisma della Congregazione della Sacra Famiglia, centrato sull’ educazione della gioventù. Gli ultimi anni di Teologia in Roma sono serviti per una apertura ecclesiale, intellettuale e umana più universali.

Quando e su quali motivazioni é nata la scelta di servire la causa missionaria?

Devo premettere che la presenza nella parentela di un grande missionario, P. Alessando Assolari, poi Vescovo di Mangochi in Malawi, é sempre stata un elemento catalizzatore per tutta la mia famiglia. Durante gli anni di Seminario ho tenuto una buona corrispondenza con lui. La presenza in famiglia della rivista monfortana “L’Apostolo di Maria”, della quale le mie sorelle erano zelatrici, ha favorito un interesse missionario sempre maggiore. Tuttavia non coltivavo il pensiero di fare una scelta missionaria.
Appena ordinato Sacerdote, insieme agli alunni del Collegio di cui ero vicerettore e alle giovani della scuola magistrale di Soncino con Suor Elvira, ho iniziato una grande attività per dare un supporto economico alle nostre missioni brasiliane: campi di lavoro e raccolta di tutto ciò che poteva dare un guadagno, oltre logicamente ad incontri di preghiera e di riflessione sulla missione. La passione per la causa missionaria andava aumentando, tanto è vero che feci due viaggi in Brasile, uno dei quali con un gruppo di giovani, a lavorare per un mese nelle nostre opere: si era all’inizio del 1982. Il servizio vero e proprio é iniziato nel 1990, per necessitá di Congregazione, avendo assunto la responsabilitá dell’ opera missionaria della stessa.

Quali sono state le sue prime esperienze missionarie?

Le prime esperienze missionarie consistettero nel rafforzare le attività legate al carisma della Congregazione e nell’impianto della pastorale vocazionale e del seminario.
A proposito dell’attivitá carismatica, non ho piú dimenticato i volti dei bambini, marcati dalla sofferenza, case umanamente superaffollate, sprovviste di tutto, ma anche il sorriso dei piccoli al nostro arrivo.
La costruzione di Centri Educativi per minori e gli ottimi risultati sono diventati il fiore all’ occhiello della Congregazione in Brasile. Altra realtà marcante è stato l’inserimento nella chiesa brasiliana, così vivace e creativa, con la presenza di un numero straordinario di laici come animatori e collaboratori efficaci.
Certo, non era tutto oro colato, ma questa presenza evangelizzatrice aveva e ha molto da dire alle chiese tradizionali.
Mi sono inserito in questa chiesa locale brasiliana con passi lenti, ma sempre attento a cogliere il meglio che incontravo, tentando di armonizzarlo con le mie esperienze anteriori.
Oggi mi sento orgoglioso di far parte dell’Episcopato brasiliano.

Come sono stati gli inizi del suo servizio episcopale?

Sono stato inviato come vescovo in una Diocesi di nuova creazione, in una Regione a me completamente sconosciuta, pochi Sacerdoti, grande estensione territoriale, siccità durante vari mesi, con la conseguente povertà. E oltre tutto Vescovo di prima nomina. Le sfide da affrontare non erano poche.
Il 18 Dicembre 2005 ho fatto Il mio ingresso solenne in Diocesi. I primi quattro mesi sono serviti per conoscere tutte le 16 parrocchie e le 20 città, per creare le necessarie relazioni con il Clero e le varie istituzioni locali e dare i primi orientamenti pastorali, con la realizzazione della prima Assemblea diocesana. Direi che, nonostante le preoccupazioni e le paure, ho vissuto l’inizio del mio servizio episcopale con molta serenità. Dopo tutto, il Signore che mi ha scelto e inviato, ha garantito la sua presenza e la potente azione dello Spírito.

Una sua lettura della stuazione político-religiosa attuale in Brasile

I due ultimi, grandi documenti della Chiesa brasiliana: il documento di Aparecida e le direttive generali dell’azione evangelizzatrice, danno ampio spazio alla situazione socio-politica, come realtà che interpella fortemente la Chiesa. Non potrebbe essere diversamente, perché l’evangelizzazione deve raggiungere anche queste realtà e inserirvi le sementi evangeliche.
L’individualismo, il potere dei grandi gruppi economici che, con le loro imposizioni, indeboliscono la democrazia, la grande corruzione, anche ai piú alti livelli, accompagnata dalla vergognosa impunità, il sistema giudiziario senza credibilità, sono tutti fattori che generano sfiducia e scarso interesse per la participazione politica. È interessante e di grande conforto notare che la Chiesa cattolica si trova al primo posto fra gli enti e le istituzioni che meritano fiducia. La Chiesa, con la sua critica costruttiva e la sua voce profetica, è, allo stesso tempo, criticata e apprezzata. La Conferenza Nazionale dei Vescovi intesse rapporti con il mondo della politica nella più grande libertà di espressione, che suscita ammirazione e stima. La presenza della Chiesa con la sua voce e con i suoi interventi, ha già ottenuto risultati positivi a dispetto della corruzione, in particolare con la coscientizzazione del popolo nei periodi elettorali. La laicità dello Stato, tanto proclamata, e, dall’altra parte, la giusta autonomia della Chiesa, hanno trovato nel recente contratto tra lo Stato brasiliano e la Santa Sede una risposta adeguata e positiva per le due parti.

Su quali terreni privilegiati si sta muovendo la Chiesa in Brasile? Un vescovo in politica. Se ne é parlato a lungo anche in Italia. Una sua valutazione.

La Chiesa brasiliana, reduce da una Teologia della Liberazione a volte esasperata e troppo progressista, ha conservato l’anelito per la dimensione politica e sociale. Io credo che oggi, lasciati da parte gli eccessi, ci troviamo in una situazione positiva che, a partire dalla Dottrina Sociale della Chiesa, affronta con determinazione i problemi che esigono chiarezza e orientamenti certi. La partecipazione diretta suscita problemi e perplessità: non si puó entrare in campo per un partito o una ideologia.
Nella mia Diocesi, per le elezioni municipali di quest’anno, ci sono state grandi polemiche, che mi hanno coinvolto direttamente. Ho scritto, ho parlato in pubblico sul diritto-dovere della Chiesa di offrire orientamenti e di favorire candidati cattolici. Certo, quando la Chiesa si fa avanti, chi è abituato ad agire nelle tenebre ha paura della autorevolezza della stessa. Ma ritengo che questo sia un servizio di grande valore che la Chiesa non può non offrire.

Ci sono sfide pastorali cui è necessario rispondere con urgenza? Cosa ha significato e cosa significa oggi la presenza della “teologia della liberazione” all’interno della storia del continente Latino-Americano?

Le sfide pastorali sono tante e tutte esigono risposte urgenti o, quantomeno, esigono chiarezza di orientamento. Io sono Vescovo da poco e, forse per questo, sento fortemente la responsabilità e la preoccupazione davanti ai gravi problemi pastorali: non mi do pace quando vedo che la vita cristiana non è in sintonia con le verità che professiamo. E questo non per la debolezza umana soggetta all’errore, ma per la confusione di idee e per la non conoscenza della Parola di Dio e delle esigenze dell’essere cristiani. Il Santo Padre quando è venuto in Brasile ha detto chiaramente che c’è un numero troppo grande di “cristiani nominali” e che si deve fare una nuova evangelizzazione. Non è solo urgente, è indispensabile, perché le tracce della prima evangelizzazione stanno scomparendo. D’altra parte, se si pensa che solo quarant’anni fa le Diocesi in Brasile erano circa la metà delle attuali, ció significa che un Sacerdote aveva territori immensi da evangelizzare, per cui passava una volta l’anno, celebrava Messa e Sacramenti e tutto finiva li.
Nella mia Diocesi era questa la situazione. Certo, a quel tempo le comunicazioni erano ridotte, non c’era televisione e nemmeno internet come attrattive, per cui la presenza della Chiesa era significativa, dava sicurezza, era luogo di incontro e di aggregazione e così lo spirito religioso dei Brasiliani ha trovato il suo habitat per svilupparsi. Oggi, con la globalizzazione di idee, proposte, stimoli e provocazioni basate sulla secolarizzazione e sul soggettivismo a tutto campo, gli interessi della gente sono rivolti ad altre cose, purtroppo senza valore.
Poi è venuta la Teologia della Liberazione che, se da un lato è stata benefica per far uscire la Chiesa da una stagnazione che non poteva più continuare, dall’altro ha smantellato delle sicurezze creando divisioni e confusioni.
Oggi ci troviamo in una fase ben più equilibrata, ma i fedeli se ne vanno o vivono una religiosità fatta di tante cose che non hanno niente a che fare con la fede. Sono arrivate le sette, in numero sovrabbondante, come potranno reagire i fedeli davanti alle nuove proposte religiose, se non hanno i fondamenti della loro fede? Concludendo, dico che le sfide pastorali sono tante: è urgente evangelizzare la famiglia, rivedere l’iniziazione alla vita Cristiana, sistematizzare la catechesi, vivere la missionarietà visitando parrocchie e comunità rurali con la collaborazione dei laici, questo solo per citare qualcosa. Il tutto, come ho già detto, a partire da un annuncio chiaro, senza sconti e senza paure.

Ci sono segnali che fanno guardare con ottimismo al futuro della Chiesa in Brasile?

Come segnali positivi che fanno sperare in un futuro migliore, io vedo la crescita delle vocazioni sacerdotali e religiose, l’aumento di giovani e adulti che chiedono i Sacramenti dell’iniziazione cristiana, un considerevole numero di laici che frequentano la Scuola di Teologia, con l’intento di approfondire le loro conoscenze e di prepararsi per collaborare nell’azione evangelizzatrice.
In quasi vent’anni di presenza in Brasile, io ho visto questa Chiesa crescere in qualità, ho visto l’entusiasmo di tanti animatori e ministri di comunità, ho visto la fedeltà di tante persone che, nonostante le prove e le sofferenze, amano la Chiesa.
La Conferenza generale dell’Episcopato Latino-Americano e Caribeñho sta dando grande impulso alla nostra Chiesa, sta suscitando interesse la Missione Continentale annunciata nel documento di Aparecida.
Pertanto, la nostra Chiesa, nonostante i tanti problemi e le contraddizioni, nostante le statistiche a volte “apocalittiche” sulla diminuzione numerica, è una Chiesa viva, cosciente che deve purificarsi e convinta che il Cristo Risorto conduce alla vittoria sul male, con la forza dello Spirito.

Piú evangelizzazione o promozione umana nelle attuali proposte pastorali della Chiesa in Brasile?

Non è possibile evangelizzare se non si fa promozione umana, se non c’è l’attenzione all’uomo: in questo la Chiesa è veramente Maestra. Tuttavia, in questo momento storico, credo che l’accento si debba mettere sull’evangelizzazione, per recuperare o, come ho già detto, per fare un nuovo annuncio del Vangelo e delle sue verità.

Una parola ai nostri lettori

Concludendo, voglio dire con gioia che la mia Diocesi, nonostante abbia solo tre anni di vita e abbia ancora carenze umane, strutturali ed economiche, oggi possiede un bel Centro di pastorale e di spiritualità e si appresta a inaugurare il Seminario maggiore nel prossimo mese di marzo. I miracoli ci sono anche oggi, perché la Provvidenza è sempre in movimento.
Ai cari lettori dell’Apostolo di Maria chiedo il dono della preghiera per me e per la mia Chiesa; in cambio invio a tutti la mia benedizione.

Santino Epis

La curiosità per crescere


Irene Piccolo, neolaureata in Giurisprudenza della LUISS di Roma. Nel recente incontro della comunità universitaria con Benedetto XVI è toccato a lei rivolgere il messaggio al Pontefice. Conosciamola più da vicino.

Irene, in cosa ti sei laureata?
Ho presentato la tesi in «tutela internazionale dei diritti umani».

Perché proprio questo ambito del diritto?
Qui da noi si lotta per garantire agli individui i diritti “più evoluti”, ma in altre parti del mondo i diritti più elementari sono negati sistematicamente.
Dando uno sguardo oltre la laurea cosa vedi?
Ho già iniziato uno stage presso la Presidenza del Consiglio, occupandomi dei rapporti con UE, ONU e altre organizzazioni internazionali, e, al contempo, mi preparo per il concorso per ambasciatore.

Raccontaci dell’incontro con il santo Padre.
Oserei definirla un’esperienza “sorprendente”. Fino a un attimo prima di iniziare a leggere, mi sentivo emozionata ma non agitata. Più volte ho guardato dritto negli occhi il Santo Padre e in quegli occhi mi son persa. Benedetto XVI a me ha fatto sempre simpatia, forse perché mi ritrovo nel suo carattere e nel suo modo di fare, ma non credevo che guardandolo negli occhi avrei visto l’Amore.

Benedetto XVI ha consegnato ai giovani la Lettera di San Paolo Apostolo ai Romani.
Mi ha molto colpito il suo richiamo a un passo della Lettera ricordando che l’amore è al centro di ogni cosa, in particolare nella vita di un cristiano: “chi ama l’altro ha adempiuto la Legge”! Ciò mi ha fatto particolarmente riflettere, perché in giro sento continuamente parlare d’“amore”, ma solo nel senso di liaison sentimentale, come se tutto il resto che ci circonda non fosse amore. Così mi son chiesta come sarebbe il mondo se questo semplice messaggio, “ama!”, riuscisse ad essere recepito da tutti gli uomini.

Il Papa vi ha invitati a fare di questa Lettera “un nutrimento sostanzioso della fede”.
Sì, e di una fede pensata! Sono convinta che credere significhi abbandonarsi alla volontà di Dio, ma non annullarsi: Gesù non ci chiede di obbedire passivamente né di non pensare o esprimerci. Anzi, è il primo che ci invita a mettere a frutto i nostri talenti; di credere alla sua parola con consapevolezza, per poter essere così più sicuri della nostra fede e capaci di spiegare agli altri che non siamo plagiati, ma abbiamo maturato una fede forte che ci proietta verso il bene. Credo che il Santo Padre volesse dire questo, utilizzando l’aggettivo “pensata” come sinonimo di “maturata”: una fede consapevole e capace di andare incontro (a volte anche contro) il mondo.
Quale ruolo possono giocare i credenti a servizio della cultura?
I credenti oggi possono avere un ruolo molto importante, restituendo innanzitutto un’identità al nostro paese; l’aver negato le radici cristiane è stato, a mio avviso, disastroso, perché è venuta a mancare l’ossatura di una nazione, che ha così perso la sua identità senza acquistarne un’altra. La fede cristiana può dare delle forti iniezioni di vitalità alla cultura di una nazione, rendendola più libera e più solida, nel senso che fornisce valori che sanno dire esattamente dove fermarci per evitare di creare uno squilibrio nell’armonia di tutte le cose.

Quanto è importante una seria preparazione culturale per noi cristiani?
Se vogliamo costruire la “civiltà dell’amore” dobbiamo avere un bagaglio culturale che ci consenta di muoverci in mezzo agli eventi, senza che questi ci travolgano. Devo, purtroppo, constatare che il livello generale d’istruzione della popolazione italiana è abbastanza basso. Questo l’ho vissuto sulla mia pelle sin dal liceo: la cultura ne esce quasi con le ossa rotte.

Perché questo disinteresse?
Credo che la causa sia, da un lato, l’aver abituato i giovani alle cose facili (e la cultura, per quanto possa essere piacevole, richiede fatica e impegno) e, dall’altro, la demotivazione sempre crescente degli insegnanti.

Insieme allo studio cosa ti aiuta a crescere?
Ciò che mi fa andare avanti è la curiosità. A volte, mi sembra di avere l’animo di una bambina, che continuamente chiede: “perché?”. Per questo divoro libri su libri Ma questa mia sete di sapere è stata appagata dalla fede; sento che la mia fede è disinteressata: non per farmi vedere dagli altri, né per accattivarmi le simpatie di qualcuno. Congiungendo le mani nella mia stanza mi sento tranquilla ed anche più forte: quel che può accadermi non può essere niente di particolarmente terribile, perché ho con me un “accompagnatore speciale”.

Cosa vorresti dire al mondo degli adulti?
Vorrei dire di fermarsi ed ascoltare, osservando, ciò che avviene intorno a loro. A volte mi sembra che i “grandi” siano troppo concentrati su se stessi, impegnati a non farsi fregare dal mondo e, se ci riescono, a fregare a loro volta. Non capiscono che li prendiamo da esempio e puntualmente rimaniamo colpiti in negativo da quello che vediamo. Se i giovani sono disillusi è perché gli adulti per primi non sperano e non danno speranza: perciò, direi loro, fermatevi e riflettete su quel che state facendo…E’necessario che siate voi ad insegnarci a credere di poter fare qualcosa e, magari, cambiare il mondo.

Marco Pasinato

Tanzania, passione d'Africa


Padre Fulgenzio Cortesi, Missionario Passionista, è nato a Castel Rozzone, in provincia di Bergamo, il 10 marzo 1937. Sacerdote e al contempo giornalista e scrittore, da oltre quarant’anni si occupa di “africanità”. È il Fondatore e Presidente del Villaggio della Gioia che sorge a Dar es Salaam in Tanzania. È un uomo che non ama parlare di sé, quanto piuttosto della sua amata Africa e dei sui bambini orfani dell’Aids, che lui salva dalla disperazione di una vita povera e terribile. I bimbi lo chiamano semplicemente Baba, che in swahili significa ‘papà’. Fede e una volontà incrollabile, sostengono padre Fulgenzio nella realizzazione di questa “idea matta”, come lui scherzosamente la chiama. “Ho iniziato da solo, avendo fede nel miracolo, e il miracolo è avvenuto. Il Signore mi ha mandato tanti amici di buona volontà e in soli due anni è sorto il Villaggio della Gioia”.
Sino al 2000 p. Fulgenzio aveva svolto un fertile ministero nelle diocesi della Lombardia, facendosi stimare in Italia e all’estero per le molteplici iniziative volte a far conoscere il vero volto dell’Africa.
Per comprendere la portata del suo fruttuoso operato basti ricordare tra l’altro: la realizzazione del “Museo di cultura e di arte africana” a Calcinate di Bergamo con l’attiguo “Villaggio africano”, l’organizzazione di numerosi concorsi internazionali per la formazione dei giovani alla mondialità, l’ideazione e la direzione di numerosi “Corsi di Missionarietà”, le costanti attività umanitarie per il Kenya e la Tanzania, la promozione di migliaia di adozioni a distanza a favore dei bambini dell’Africa e dell’America Latina, la pubblicazione di pregevoli libri sull’Africa e molto altro ancora.
Incontrando padre Fulgenzio, ci si trova di fronte ad un sacerdote minuto, dai modi gentili, con un sorriso discreto che fa frequentemente capolino nel suo saggio volto incorniciato dalla bianca barba. La pacata serenità delle sue parole e dei suoi gesti non lascia trasparire gli acciacchi conseguenti alla prova durissima di ben tre tumori che purtroppo nel corso dell’ultimo decennio, ad intervalli regolari, ne hanno profondamente martoriato il corpo, senza però minimamente scalfirne l’inarrestabile vitalità. Anzi fu proprio il sopraggiungere della malattia a consentirgli finalmente di realizzare la sua più grande aspirazione: vivere il suo apostolato in Africa!
Questa passione e tormento d’Africa lo ha accompagnato sin dai tempi giovanili della formazione spirituale nel Convento passionista della Basella, ma le sue importanti mansioni in seno all’Ordine Passionista lo avevano sempre trattenuto in Italia. Nel 1999, al sopraggiungere del primo tumore, quando tutti gli consigliavano di ritirarsi a vita più tranquilla, lui invece comprese che la malattia rispondeva ad un superiore disegno, ed ai suoi occhi quella croce, che era chiamato a portare, divenne il lasciapassare per l’Africa. Ottenne dai suoi superiori il permesso per trasferirsi in quella terra crocifissa dai chiodi della miseria, dell’ingiustizia e della violenza. Così, dopo essersi impegnato con i medici a ritornare periodicamente in Italia per le terapie ed i necessari controlli, nell’agosto del 2000 padre Fulgenzio prese casa a Dar es Salaam, l’ex capitale della Tanzania, situata sulla costa Orientale che si affaccia sull’oceano Indiano.
È lo stesso p. Fulgenzio a raccontare l’angosciante impatto con la drammatica realtà dei bambini di Dar: «Alice era una piccola creatura dagli occhi azzurri e dolcissimi. Era stesa sulla piccola stuoia con le braccine in croce, troppo minute e fragili per poterle muovere, troppo deboli per lottare con la vita. Mi scrutava con i suoi occhi profondi come il cielo infinito, mentre i miei si sono riempiti di lacrime. L’ho stretta forte al cuore mentre la sua anima volava radiosa verso la Luce e la vita; quanta voglia di abbandonare le mie sicurezze e imparare a vivere la realtà con gli occhi dei perdenti. Alice mi è morta in braccio. Un conto sono i bambini di strada sulle statistiche, un conto è stringerne una e vederla andarsene via senza poter far nulla.
Nella stuoia, che ha avvolto e consegnato alla terra il suo piccolo sacrificato corpo, è entrata anche parte di me stesso insieme al grido impotente contro ingiustizie enormi che distruggono ogni giorno i nostri figli più belli.
Il più grande peccato del nostro tempo è il peccato di omissione. Non fare. E di delega. Sono sempre gli altri che devono far qualcosa. Quando leggi sui giornali di milioni di persone che scompaiono in Africa non ti fa nessun effetto, ma quando una bambina così smette di vivere tra le tue braccia non è la stessa cosa.
Dopo l’incontro con Alice un giorno andai all’orfanotrofio della città. C’erano cento bambini, erano in condizioni peggiori di animali in una stalla. Stetti male, non dormii per due notti. Dovevo fare qualcosa.
Poco dopo due altri bambini, Alfred e Clemens, che avevano quattro e sei anni, morirono di aids. Queste tre piccole creature mi hanno costretto a una profonda conversione».

Passionista innamorato di Dio, all’epoca in prossimità del quarantesimo di sacerdozio, si definisce “convertito” da un’esperienza che gli provoca un dolore talmente lancinante da lasciarlo senza fiato, e lo induce a dedicare ogni suo respiro alla causa dei bambini africani dimenticati dall’indifferenza del mondo. In un arco di tempo brevissimo, p. Fulgenzio ha prima concepito e poi fondato il Villaggio della Gioia, per accogliere i bambini di strada e gli orfani dell’Aids. Il suo è stato uno slancio senza calcoli, guidato esclusivamente dalla fede nel Signore, ed il Signore attraverso di lui sta compiendo meraviglie!
La Provvidenza lo ha tangibilmente sostenuto e il suo sogno si è realizzato: l’11 gennaio 2004 il Cardinale Polycarp Pengo, Arcivescovo di Dar es Salaam, ha inaugurato il Villaggio della Gioia. Attualmente nelle case-famiglia del Villaggio risiedono 104 bimbi, che hanno ritrovato un papà, perché lo Stato della Tanzania ne ha affidato la patria potestà a Baba Fulgenzio. Il Villaggio della Gioia non è un orfanotrofio, né un collegio, ma “una famiglia di famiglie”, dove bambini di religione cristiana, musulmana ed animista vivono insieme come fratelli, nel pieno rispetto delle diversità.
Il Villaggio apre le sue porte anche ai bambini del circondario, tanto che già 210 alunni frequentano la “Hope & Joy English Medium Primary School” (Speranza e Gioia - Scuola Media e Primaria in lingua inglese).
Per assicurare ai suoi orfani l’amore di tante mamme, p. Fulgenzio il 9 aprile 2006 ha annunciato insieme al Cardinal Pengo la fondazione di un nuovo istituto religioso femminile: “Le mamme degli orfani”.
Diciannove giovani donne africane si stanno attualmente preparando alla vita consacrata per amare il Signore, come dice Baba Fulgenzio: «Nelle sue creature, le più belle e le più fragili: i Suoi e i nostri bambini».
Dall’estate 2008 il Villaggio della Gioia ha un Amico ed un grande Benefattore in più: Benedetto XVI. È stata una grande sorpresa per padre Fulgenzio ricevere dal Papa la sua paterna benedizione ed una generosa offerta per la costruzione di una casa-famiglia, in risposta alla lettera confidenziale nella quale gli aveva parlato del suo apostolato tra gli orfani.
Padre Fulgenzio ha commentato così la gioiosa notizia sul sito www.ilvillaggiodellagioia.it : «Il Papa sa ora di questo vecchio missionario Passionista che si ostina, essendo il più vecchio e malandato Passionista in tutta la Tanzania, ad avere 94 figli e ancora capace di… sognare!».

babafulgenzio@alice.it
segreteria@villaggiodellagioia.it

Manca la volontà politica

Siamo da tempo nel terzo millennio e ogni giorno cresce l’esercito di affamati. Le cifre parlano di un miliardo di persone. In appena un biennio si è avuto il maggior aumento di persone affamate, nonostante il mondo diventi più ricco e produca più cibo di quanto ne abbia prodotto nell’ultimo decennio. Tale meccanismo, oltre a sconvolgere il rapporto tra risorse e popolazione, favorisce nello stesso tempo precise discriminazioni sociali e ambientali. I ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, secondo la logica di un capitalismo spietato. Con alcune terribili contraddizioni: se i governi del mondo dirottassero metà della metà delle spese militari verso un progetto comune contro la fame, nel giro di pochi anni tutti gli individui del pianeta avrebbe risolto il problema alimentare. Nella sua oggettiva semplicità, questa considerazione risuona agghiacciante.
Secondo il nuovo Rapporto Fao sullo “Stato dell’insicurezza alimentare nel mondo” (Sofi) che è stato presentato nei mesi scorsi, sono 963 milioni le persone che soffrono la fame, 40 milioni in più dell’anno scorso. Secondo il Rapporto, alla base della crescita incessante delle persone denutrite c’è l’aumento dei prezzi delle materie prime agricole, che ha fatto precipitare nell’insicurezza alimentare milioni di poveri. E, anche se i prezzi delle derrate agricole hanno fatto registrare una piccola inversione di rotta dall’inizio del 2008, per milioni di persone, ha spiegato il vicedirettore generale della Fao e curatore del rapporto Hafez Ghanem, «nei Paesi in via di sviluppo riuscire a mangiare ogni giorno una quantità di cibo sufficiente per poter condurre una vita attiva e sana è ancora un sogno lontano. Se i prezzi più bassi e la stretta creditizia associati alla crisi economica costringeranno gli agricoltori a diminuire le semine - ha avvertito ancora Hafez - l’anno prossimo potrebbe verificarsi un’altra drammatica ondata di prezzi alimentari alti».

La fotografia della Fao

La stragrande maggioranza delle persone sottonutrite (907 milioni), si legge nel rapporto che riporta i dati 2007, vive nei Paesi in via di sviluppo. Di questi, il 65 per cento si concentra in soli 7 Stati: India, Cina, Repubblica Democratica del Congo, Bangladesh, Indonesia, Pakistan ed Etiopia. Popolazione numerosa e progressi relativamente lenti nella riduzione della fame fanno sì poi che circa due terzi di coloro che soffrono la fame vivano in Asia (583 milioni nel 2007). In compenso però alcuni Stati del Sud-Est asiatico, come la Thailandia e il Vietnam, hanno fatto notevoli passi avanti, mentre Asia del sud e Asia centrale hanno registrato una battuta d’arresto nella riduzione della fame.
Nell’Africa sub-sahariana poi una persona su tre - vale a dire circa 236 milioni nel 2007 - è cronicamente affamata, dato che rappresenta la proporzione più alta di persone sottonutrite sul totale della popolazione. Il grosso di questo aumento si è registrato in un singolo paese, la Repubblica Democratica del Congo, prostrato da un conflitto ormai senza fine: così da 11 milioni, il numero è lievitato a 43 milioni (nel 2003-05) portando la proporzione delle persone sottonutrite dal 29 al 76 per cento del totale. Nell’insieme l’Africa sub-sahariana ha fatto qualche passo avanti nella riduzione di quanti soffrono la fame cronica passando dal 34 per cento del biennio 1995-97 al 30 per cento del biennio 2003-2005. Ghana, Congo, Nigeria, Mozambico e Malawi sono i paesi che hanno registrato la riduzione più marcata.
Passando poi all’America, la regione dell’America latina e dei Caraibi era quella che nel 2007 aveva registrato i maggiori passi avanti nella riduzione della fame prima dell’impennata dei prezzi alimentari, che ha fatto salire il numero delle persone affamate a 51 milioni. I Paesi del Vicino Oriente e del Nord Africa hanno in generale registrato bassi livelli di persone sottonutrite, ma i conflitti (Afghanistan e Iraq) e il rialzo dei prezzi alimentari hanno fatto salire il numero dei sottonutriti dai 15 milioni del biennio 1990-92 a 37 milioni nel 2007.
Alcuni Paesi erano sulla buona strada prima che i prezzi alimentari schizzassero in alto, ma «perfino questi hanno subito delle battute d’arresto - ha detto Ghanem - e parte dei progressi fatti sono stati cancellati a causa dei prezzi alti. La crisi ha principalmente colpito i più poveri, i senza terra e i nuclei familiari con donne capofamiglia».
Manca la volontà politica

Ma la comunità internazionale sembra sorda alle richieste del mondo della cooperazione, dei diritti umani e della società civile. L’ennesima dimostrazione della mancanza di volontà politica nel risolvere realmente il problema arriva dalla recente decisione di stanziare centinaia di milioni di dollari da parte di Stati Uniti e Unione Europea per salvare le banche occidentali, una scelta che dimostra che i fondi ci sono. Eppure negli ultimi anni la comunità internazionale non è riuscita a destinare nessuno dei 25 miliardi di dollari previsti che avrebbero permesso, per esempio, di ridurre di due terzi la mortalità infantile, come previsto dagli Obiettivi del Millennio. Un rapporto dell’organizzazione umanitaria Oxfam pubblicato proprio in occasione della Giornata Mondiale dell’alimentazione, denuncia come multinazionali del cibo stiano facendo grossi guadagni sulle spalle dei più poveri “grazie a politiche agricole inadeguate e a norme commerciali inique”, che contribuiscono ad un “impoverimento dei piccoli agricoltori e ad una situazione di oligopolio inammissibile”. Anche papa Benedetto XVI è intervenuto sul tema. Il pontefice ha puntato il dito contro la speculazione sfrenata che interessa i meccanismi dei prezzi e dei beni di consumo; contro l’assenza di un’amministrazione corretta delle risorse alimentari; e ancora contro gli investimenti crescenti in armamenti. “I mezzi e le risorse di cui il mondo dispone possono procurare cibo sufficiente per soddisfare le necessità di tutti”, ha detto ancora il papa. Allora perché non è possibile evitare che tante persone soffrano?

Daniele Rocchetti

Discepoli di San Paolo come il Montfort


Sabato 11 ottobre, i partecipanti al Consiglio Generale Straordinario della Congregazione dei Missionari Monfortani, hanno vissuto un pellegrinaggio verso la Basilica di San Paolo, per far memoria del grande Apostolo in questo anno a lui dedicato. La figura e il grande messaggio di San Paolo hanno illuminato e guidato tutti i momenti di preghiera.
L’eredità carismatica lasciataci dal nostro Fondatore si rifà molto al cammino tracciato dagli Apostoli. S. Luigi Maria di Montfort scrive all’inizio della Regola Manoscritta che chi vuole unirsi a lui in questa piccola compagnia deve seguire le orme degli Apostoli poveri. Poco più avanti, nello stesso numero della Regola, il Fondatore aggiunge: “potranno così dire sempre con Gesù Cristo, il Signore mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio”. E ancora aggiunge: “gli autentici missionari devono poter dire in verità con San Paolo: andiamo vagando di luogo in luogo”.
Era stato il Papa Clemente XI ad aver confermato il Santo nella missione di rinnovare lo spirito del cristianesimo nel paese transalpino, durante la visita a Roma nel 1706, dove si era recato per chiedere luce al successore di Pietro circa la missione da svolgere nella sua vita apostolica. Questa conferma ricevuta ha portato il Montfort a vivere la sua missione sulle orme dell’Apostolo San Paolo che egli chiamava semplicemente “l’Apostolo” e che è stato per lui vero modello di vita missionaria e apostolica.
Raccogliendo questa eredità, i missionari della Compagnia di Maria, per lunghi decenni si sono dedicati alle missioni popolari in un vasto territorio della Francia, seguendo il Fondatore che invitava a tenere le missioni indifferentemente nella città come nelle campagne, condividendo le più tenere inclinazioni del Cuore di Gesù … preferendo le campagne alla città, i poveri ai ricchi. La scelta dello stile della missione, come pure i luoghi dove svolgere questa attività aiutano a capire lo scopo che San Luigi voleva raggiungere: rinnovare lo spirito cristiano nei cristiani, e questo attraverso la rinnovazione delle promesse battesimali.
Sono dovuti passare più di 150 dalla morte del Fondatore perché i suoi discepoli intraprendessero un cammino missionario al di fuori dell’Europa, prima in Haiti, e poi in altri paesi, svincolati da ogni ufficio e preoccupazione temporale che possa fermarli. Liberi di correre con San Paolo e con gli altri apostoli, dovunque Dio li chiamerà.
San Luigi di Montfort domanda per i suoi futuri collaboratori che “realizzino fedelmente le parole piene di carità del grande Apostolo: mi sono fatto tutto a tutti”. Lo slancio missionario ad gentes dei suoi discepoli ha conosciuto momenti di grande profondità così che la scelta di posti, spesso di frontiera, alcune volte ha portato con sé anche la morte di giovani missionari.
Ma un altro aspetto della vita missionaria di Paolo ha fecondato l’attività spirituale e apostolica del Padre di Montfort e quella dei suoi discepoli: la scelta di annunciare Cristo crocifisso, potenza e sapienza di Dio.
Costituendo, nell’ospedale generale di Poitiers, un piccolo gruppo di donne, folli agli occhi della sapienza umana, Luigi Maria apre la strada alla fondazione delle Figlie della Sapienza, chiamate ad annunciare l’amore di Gesù, Sapienza Eterna e Incarnata, che si fa presente nei poveri. Il Montfort stesso, durante una missione, caricando sulle spalle un povero, bussò alla porta dove erano ospitati i missionari dicendo: “aprite a Gesù Cristo”. Nei poveri e nei malati il Montfort invitava a vedere lo stesso Cristo, ma gli stava a cuore anche l’educazione e la formazione dell’infanzia che affidava alle suore di questa nascente congregazione religiosa, come anche a dei fratelli predisposti a questo compito. Questa seconda missione darà vita ad un’altra congregazione religiosa, quella dei Fratelli Monfortani di San Gabriele.
A partire dal grande calvario che San Luigi di Montfort realizzò nei pressi di Nantes, con la partecipazione attiva e entusiasta di centinaia di persone, è diventata tradizione anche fra i suoi discepoli l’abitudine di erigere in molti posti del mondo dei Calvari che possano presentare il volto di Cristo nel mistero della Croce. Visitando le diverse missioni, mi viene spontaneo soffermarmi in questi luoghi e meditare il messaggio di Paolo che “aveva deciso di non insegnare altro che Cristo e Cristo Crocifisso”, e pensare anche al Montfort.
Nel cantico cristologico della lettera ai Filippesi: “Cristo Gesù, che pur essendo di condizione divina, non conservò gelosamente il suo essere uguale a Dio, ma si è abbassato prendendo la condizione di schiavo e divenendo simile agli uomini”, insieme alla narrazione dell’Annunciazione dove Maria si presenta come la “schiava del Signore”, troviamo l’ispirazione del Montfort che propone la “Consacrazione a Gesù, Sapienza Eterna e Incarnata, per le mani di Maria”, chiamata spesso dal santo “schiavitù di Gesù vivente in Maria”.
Quanti frutti ha portato questo cammino di spiritualità durante questi secoli! È stata anche per me una scoperta costatare come diverse congregazioni, movimenti laici e singole persone, vivono questa spiritualità. È un cammino di santità e di testimonianza. Come quello di San Miximiliano Kolbe che ha dato la sua vita in un campo di concentramento, e quello di Giovanni Paolo II che è arrivato sulla cattedra di Pietro. Il vescovo Karol Wotyla scegliendo come motto del suo episcopato il “Totus Tuus”, conservato poi anche da Papa, dice di essersi ispirato al cammino spirituale proposto da Montfort nel Trattato della Vera Devozione a Maria. L’avere attinto a questo pozzo spirituale e apostolico spiega lo spirito missionario di questo Papa che ha avuto in San Paolo, l’Apostolo delle genti, un esempio e una guida.
Essere fedeli oggi all’eredità del nostro Fondatore, ci porta ad una riconversione dei nostri cuori al carisma che il Montfort ha vissuto alla scuola degli Apostoli poveri. Il passare degli anni, sovente, annacqua le intuizioni e l’autenticità evangelica di questi profeti. Ma la luce, che continua a stare davanti a noi, di San Paolo e del Montfort, ci spinge a riprendere con entusiasmo la grande missione di evangelizzare. Ritengo che l’anno paolino sia un’opportunità unica per noi, discepoli del Montfort, per ripensare le modalità della nostra missione. Aprendoci alla vita, alla realtà, e alle culture degli uomini del nostro mondo, sull’esempio di Paolo, possiamo recuperare una fedeltà rinnovata alle nostre origini.

Santino Brembilla

È uscito il numero di febbraio 2009


È uscito il numero dell'Apostolo di Maria di Febbraio!

martedì 6 gennaio 2009






La comunità dei Missionari Monfortani di Redona imbiancata dalla neve!!!