martedì 21 luglio 2009

Sostenuti dallo Spirito


di Marco Pasinato


Michel e Ghislaine , una coppia affiatata di artisti francesi. Dopo una carriera come insegnanti si sono completamente dedicati all’arte sacra. Li abbiamo intervistati nel loro atelier su una collina di Iffendic in Bretagna.

Una parola sulla vostra attività di arte sacra.
Michel (M.): Sono stato professore di arte plastica. Ora mi occupo di arredamento liturgico. Ho cominciato quando mi è stato chiesto di ristrutturare il presbiterio della parrocchia. Mi dedico anche alla pittura.
Ghislaine (G.): Anch’io sono stata insegnate di un liceo artistico a Parigi. Dopo aver ottenuto il prepensionamento per dedicarmi completamente ai miei tre figli, ho cominciato a seguire dei corsi per apprendere l’arte dell’iconografia.
La vostra esperienza di artisti.
M. : Anzitutto vorrei sottolineare l’importanza di essere una coppia. La nostra preghiera insieme, il nostro percorso di fede, i nostri studi di storia dell’arte, tutto fa da terreno fecondo per poter realizzare le nostre opere. Inoltre ci completiamo e ci sosteniamo a vicenda. Ci sentiamo sostenuti dallo Spirito in ogni fase che ci porta alla realizzazione di un opera: talvolta questo percorso è una lotta interiore, per integrare le diversità, per superare alcune barriere psicologiche, per essere più umili e diventare sempre più docili all’ispirazione.
G.: "Io dipingo come l’uccello canta" (Monet): nello stesso tempo una necessità e una chiamata. Alla sera di una giornata dove ho lavorato molto mi sento felice. Quando incontro delle difficoltà tecniche allora è più dura! Inoltre l’arte delle icone si vive in un clima di preghiera. Così ci sono dei giorni dove è meglio che non dipinga affatto; anche se, grazie a Dio, sono pochi!
La vostra esperienza di artisti "a quattro mani"
M.: È iniziata quando eravamo ancora indifferenti al discorso religioso e non è stato facile: occorre infatti che ciascuno possa trovare il suo spazio e che l’opera prenda forma secondo due personalità differenti. La sintonia di coppia ci ha permesso di trovare un modo di operare che permetta a ciascuno di portare il "suo" contributo alla creazione comune! Poi è arrivata l’esperienza della conversione e per sette anni abbiamo interrotto ogni attività artistica: era necessario che la nostra mente fosse pacificata dalla presenza del Signore e che poco a poco tornasse la Luce nella nostra vita. Accettando la responsabilità di un gruppo di preghiera in parrocchia abbiamo ripreso in mano i pennelli realizzando un’icona per il gruppo: fu un momento particolare, dove la nostre mani sembravano guidate mentre dipingevamo il volto di Cristo!
G.: Confermo che lavorare insieme è un’esperienza bella, ricca e non sempre facile.

L’artista è un tipo "a parte", appartenente a un’élite oppure una persona concreta?
M.: Artista: uomo "a parte": perché no? In quanto persona con una sensibilità oltre la media, che gli permetta di esprimere una sua interpretazione del mondo che lo circonda. Quanto al fatto di essere un’élite: alcuni lo pensano, ma è una trappola dove ci si compiace del proprio"io e si diventa la "caricatura" del vero artista. Mi sembra invece che riconoscendo i propri limiti, restiamo ancorati al concreto evitando uno stile orgoglioso.
G.: La nostra sensibilità ci permette di percepire in modo acuto sia la bellezza che i drammi della vita. A parte questo, siamo persone concrete, inserite nel mondo che esprimiamo il nostro pensiero e non esitiamo a coinvolgerci nella chiesa, nelle associazioni, nella politica, etc.
Giovanni Paolo II scrisse agli artisti: L’arte autentica ha una profonda affinità con la fede.
G.: Ho sempre pensato che l’artista è come una "porta" aperta sul Mistero: deve saper tenere aperta questa porta per sé e per i suoi contemporanei. L’artista credente ha, secondo me, la missione di elevare verso la Bellezza: e non importa se non è "alla moda" o secondo l’aria che tira!
M.: L’opera, quando è ispirata, raggiunge il destinatario in quel fondo comune e intimo dove ci sono le questioni fondamentali sul perché della vita e della nostra relazione con l’Universo. Essa può portare una luce su un aspetto particolare di questo mistero, che rivela a ciascuno il suo posto.

È possibile riprendere il dialogo interrotto tra chiesa e artisti?
G.: Alcuni artisti che lavorano per la chiesa oggi, cedono alla tentazione di fare ad ogni costo dell’arte alla moda e purtroppo sfigurano il Bello, offrendo ai fedeli un’arte totalmente disumanizzata. Mi lascia perplessa anche la scelta di certe commissioni d’arte sacra, che non segue un vero discernimento. Credo che gli artisti che lavorano per la chiesa debbano coltivare una fede profonda o, per lo meno, una sincera ricerca spirituale.

Siete d’accordo che "la bellezza salverà il mondo"?
M.: Come insegna la parabola dei talenti, noi artisti dobbiamo chiederci come far fruttificare il grande dono che abbiamo ricevuto. Recito sempre questa preghiera: "Tu, Maestro divino di tutto ciò che esiste, rischiara e dirigi l’anima, il cuore e lo spirito del tuo servo, guida le sue mani, affinché possa rappresentare degnamente e perfettamente la tua immagine, quella di tua Madre e di tutti i santi, per la gloria, la gioia e la bellezza della tua santa Chiesa".
G.: Una signora presente a una nostra esposizione mi diceva: "Mi sento talmente bene qui; è l’ottava volta che ritorno!" Nel mio piccolo, cerco di portare un messaggio di speranza e di bellezza. Il mondo non è solo dramma e brutture. Bisogna scoprire la Bellezza che è in noi, attorno a noi, negli avvenimenti, nella creazione e … saper rendere grazie!

Per finire "in bellezza" quale messaggio ai lettori?
Auguriamo che ciascuno possa scoprire la Bellezza in ciò che lo circonda, ottenendo dal Signore uno sguardo di fanciullo che mette in ogni cosa la gioia semplice dello stupore.

Il cielo sopra il Malawi


di Sanino Epis


Spostandosi con una grossa macchina per le strade dissestate del Malawi, si alzano nubi di polvere sulle persone del posto. I loro sguardi al passaggio dell’auto raccontano stupore, gioia, sorrisi. È importante, anzi vitale, capire che a nulla serve osservare, salutare, fotografare o liberarsi di piccoli doni che presto svaniscono. È necessario tendere una mano a queste persone, perché finalmente siedano alla guida della macchina e i loro occhi non siano più annebbiati da nessun tipo di polvere. In Malawi abbiamo scattato foto bellissime: il Cielo si stende veramente anche sopra il Malawi. È il segno della grande provvidente mano di Dio. L’altra mano (perché con due si lavora decisamente meglio) abbiamo cercato di porgerla e dobbiamo tenderla ancora noi. Qui, come in ogni angolo del mondo dove si leva alto l’appello alla solidarietà".
È solo un breve stralcio del diario del viaggio in Malawi che Don Alfredo Maggioni ha messo a disposizione dei visitatori del sito Internet della sua Parrocchia di Cernusco Lombardone. Gli abbiamo chiesto ulteriori notizie su questa esperienza africana vissuta con alcuni suoi parrocchiani.
È raro trovare sacerdoti in cura d’anime in una comunità parrocchiale che trovano il tempo per una esperienza di missione in qualche paese del Terzo Mondo. Come è nata l’idea questa tua esperienza in Malawi e su quali motivazioni?
Verso la fine degli anni ’90, dopo un quindicennio di lavoro con i bambini e i giovani dell’oratorio (esperienza bellissima e benedetta da Dio) sono stato "tentato" da pensieri che mi portavano lontano, fantasie che hanno trovato un’occasione di verifica in un viaggio abbastanza avventuroso nel Borneo, nella regione del Kalimantan. Un viaggio quasi da solo quindi con molto tempo per pensare e una quantità di occasioni e incontri con persone straordinarie, che guardavo vivere, non potendo ascoltarle data la mia cronica incomprensione delle lingue diverse dal brianzolo.
Poi a casa, con nostalgia e la consapevolezza di una vocazione (rafforzata) diversa, così mi è sembrata la volontà di Gesù.
Nello stesso tempo mi sentivo più ricco e costantemente invogliato ad aprirmi a nuove amicizie. Così sono stato in Chapas e in Argentina, sempre a contatto e in piena condivisione della vita dei missionari, sempre accompagnato e sostenuto dall’aiuto e dalla preghiera delle mie comunità parrocchiali.
Ma l’Africa, no. Avevo come un blocco, una vera e propria repulsione. Fino al 2004 quando, costretto dalla necessità, dietro pressione di amici, per assolvere ad una richiesta legata al mio ministero ho casualmente preso contatto con Padre Mario Pacifici, monfortano, e alla fine ci sono andato… in Malawi per scoprirmi sconvolto - nel senso più bello - da persone straordinariamente povere di cose e così tanto ricche di umanità e di serenità. Ho depredato a piene mani, dalla gente e dai missionari, compreso il vescovo Mons. Alessandro Assolari, che poi ho avuto il piacere di ospitare per una celebrazione nella mia parrocchia alla periferia di Milano.
Già lo sapevo per averlo sperimentato, viaggi come quello fanno un gran bene anche alle comunità in Italia, se rese partecipi direttamente dell’effusione della Grazia, perché consentono di vivere un frammento di missione "senza intermediari", come mi è venuto di intitolare il mio ritorno in Malawi l’anno scorso, ancora una volta preceduto e seguito da una forte sensibilizzazione di tutta la mia comunità.
Quali sono stati i momenti forti di questa esperienza? Con quali progetti l’hai realizzata?
Sempre mi sono mosso con l’intenzione di "guardare per raccontare", per rendere partecipe chi è qui e anche per condividere con chi è là quello che abbiamo qui.
Un momento intensissimo – che non dimenticherò mai – del mio ultimo viaggio è stato constatare come alcuni giovani che mi hanno seguito si siano scoperti "arricchiti", loro che erano partiti per "portare aiuti"; consapevoli di avere maturato un debito, invece di avere elargito una cospicua elemosina.
L’ospitalità e la condivisione sono esperienze forti; essere a tavola e vedersi imbandito il cibo e scoprire poi che loro hanno ridotto le loro razioni per darne a te… ti fa uscire con il "groppo" alla gola…
In questi anni ho imparato che il progetto più bello che si possa fare è quello di appoggiare "ciecamente" l’azione del Missionario sul luogo, perché li la vita non è "organizzata e organizzabile" come da noi; a volte si pensa di finanziare una scuola, ma poi la siccità fa mancare la farina, e allora l’urgenza consiglia prima di dar loro da mangiare…
Cosa pensavi di trovare in Malawi progettando il viaggio e cosa di fatto hai scoperto vivendo vari periodi in mezzo alla sua popolazione?
Ad essere onesto pensavo solo che mi sarei trovato male; l’ho detto, l’Africa non mi attirava. Ora sono contento di esserci andato e ritornato e chissà… potrei tornare ancora…ancora… Vale la pena di affrontare le proprie paure, quando tendono a chiuderti dentro il recinto comodo nel quale hai la fortuna di vivere, così tocchi con mano che la nostra bella vita, non è sempre del tutto tale e ha molto da apprendere (o riprendere)…
Ho saputo che nella tua comunità parrocchiale è forte l’interesse per la realtà missionaria. Con quali programmi pastorali tieni vivo questo interesse?
Attualmente sono in una Comunità che è molto sensibile "di suo" al discorso missionario, perché da Cernusco Lombardone sono partiti numerosi giovani e ragazze che sono diventati sacerdoti e religiose "ad gentes". Questo rende il mio compito più facile e c’è come una specie di complicità tra me e la gente… se mai qualche volta si deve discutere vivacemente quale sia il "miglior" missionario… e qui vinco io: il mio! (sono interista, perciò è così…!). alla missione si dedica ogni occasione, non solo il tradizionale mese di ottobre, e si cerca sempre di dare "un volto, uno scopo" per far crescere la sensibilità…
La tua esperienza in presa diretta in terra di missione ha certamente portato benefici nella tua vita di prete impegnato in una parrocchia? Quali e come le hai trasmessi ai tuoi parrocchiani?
Credo di averti già detto qualcosa a questo proposito; posso solo aggiungere che non rinuncerei alle esperienze vissute, anzi se potessi tornare indietro comincerei prima. Oggi per noi il problema più grande sta nel trasmettere queste cose ai giovanissimi, per loro il mondo non ha - per esempio - le grandi distanze che vedevo io e credono di conoscere tutto, o di poterci arrivare con comodo, magari via internet. Ma così si perde il cuore della realtà e il sapore degli incontri…
Perché sarebbe opportuno che i laici della tua comunità avessero la possibilità di fare una esperienza in terra di missione? Cambierebbe qualcosa nella loro vita?
L’incontro con la Missione cambia di sicuro, apre la mente e il cuore e fornisce stimoli per guardare alla vita con occhi diversi. Educa al ringraziamento per i doni ricevuti, richiama ad un utilizzo più intelligente dei beni e fa crescere la sensibilità verso quel tipo di missione che potrebbe presto interessare le nostre periferie e i nostri contesti abitativi.
Ci sono progetti di solidarietà missionaria nel futuro nella tua vita di parroco e in quella della tua parrocchia?
Si, sono tutti orientati a dare appoggio ai missionari nativi e conosciuti: sono molte persone; ma per ora è uno dei settori che non conosce la flessione (brutalmente, non calano le entrate) che interessa tutti gli altri settori della vita comunitaria.
Da qualche tempo ci occupiamo anche dello "star bene" dei nostri missionari, agevolando in tutte le maniere i loro periodi di riposo presso di noi e la possibilità di concedersi anche controlli medici specialistici; una specie di "tagliando" per tenerli in forma…
Un messaggio ai lettori di una rivista missionaria.
L’incontro con Padre Mario e con gli altri Monfortani a Balaka mi ha trasmesso l’immagine di un missionario energico, vivace, anche scontroso al punto giusto; uno che si confronta e che si scontra, che non possiede la verità, ma che la cerca nel dialogo e nella riflessione. Questo comporta una grande fatica: i missionari vanno sostenuti soprattutto con la preghiera e - per non fabbricarsi un proprio "film" sulla loro condizione – vanno visitati in loco, senza disturbarli troppo e senza scendere con assurde attese, quando non addirittura con pretese.

Amare perfettamente


Angelo Cominelli nasce il 1° maggio 1929 a Cerete Basso (Bg). Alle soglie della giovinezza entra alla Scuola Apostolica di Redona, desideroso di seguire un suo fratello più grande, Giacomo, nell’abbracciare la vita monfortana. Nel settembre 1951 inizia l’anno di Noviziato a Castiglione Torinese (To). Durante questa tappa formativa è chiamato ad un discernimento vocazionale. Manifesta di volersi incamminare verso la vita monfortana ma come fratello laico e non più come sacerdote. Avverte forte la distanza tra la grandezza del ministero sacerdotale e la sua «povertà». Alla fine decide di proseguire, riponendo la sua fiducia in Maria. Nella domanda di ammissione ai voti scrive: «Tutto a Lei mi sono dato e spero tutto da una così buona Madre». Emette la prima professione l’8 settembre 1952. Nello Studentato di Loreto compie gli studi filosofici e teologici. In questo periodo manifesta anche il desiderio della «missione ad gentes». E’ ordinato sacerdote nella Basilica della Santa Casa il 1° marzo 1958.
La prima destinazione è Arona (No), per il corso di Pastorale. Nel 1959 è inviato a Ginosa (Ta) per il ministero parrocchiale e per l’insegnamento della religione nella scuola pubblica. Padre Angelo attende con assiduità al sacramento della penitenza e alla direzione spirituale della gioventù. Alcune ragazze da lui guidate scelgono di consacrarsi al Signore tra le Figlie della Sapienza. Nel 1965 i Superiori lo designano per il seminario minore monfortano di Reggio Calabria, con la mansione di economo e di cappellano di una vicina casa di cura. In terra di Calabria padre Angelo trascorrerà tantissima parte della sua vita di monfortano. La Chiesa del Rosario di Reggio Calabria, dal 1967 al 1978, lo vede solerte nel ministero quotidiano della rettoria e in aiuto ad una parrocchia della città. Dal 1975 al 1978 è anche superiore della comunità.
Quando è chiamato ad un servizio pastorale in altri luoghi, padre Angelo avverte difficoltà e disagio. Qualche mese ad Arbizzano (Vr), un breve periodo a Napoli nella parrocchia Santa Maria d’Ogni Bene. Nel 1979 inizia il servizio pastorale nella parrocchia di S. Luigi di Montfort a Roma. Tuttavia sempre manifesta il desiderio di ritornare a Reggio Calabria sia per motivi di salute sia per le possibilità di un ministero più consono alle sue attitudini. Nel 1983 è nuovamente nella città dello Stretto, alla Casa della Madonna e qui rimane sino all’ultima chiamata. P. Angelo si distingue per una attitudine ai lavori pratici e spesso anche umili. Attende all’annuncio del vangelo con una predicazione semplice. Ama la pastorale dei malati. Schivo, riservato ed essenziale nei rapporti, restio a parlare di sé.
Colpito da un ictus cerebrale, dopo pochi giorni muore il 19 dicembre 2008, nell’anno in cui ha celebrato cinquant’anni di sacerdozio. Dopo i funerali a Reggio Calabria viene trasportato al paese d’origine e nel cimitero locale p. Angelo riposa accanto ai genitori e al fratello p. Giacomo.

Io ho un sogno



I have a dream (Ho un sogno) è la frase con cui viene identificato il discorso tenuto da Martin Luther King, un politico, attivista e pastore protestante statunitense, leader dei diritti civili, Premio Nobel per la pace, tenuto il 28 agosto del 1963 davanti al Lincoln Memorial di Washington al termine di una marcia di protesta per i diritti civili. Quel giorno ha seganto la storia americana ma non solo, ha anche ispirato le azioni di molti che desideravano profondamente cambiare il volto dell’umanità in meglio.
È incredibile come un sogno possa essere così forte e potente da trascinare e indirizzare la volonta e le forze di una persona o di molte persone. Ma è questo il compito dei sogni che qualcuno definisce anche come desideri. Essi ci permettono di vedere adesso, di rendere attuale, qualcosa che ancora non c’è e accrescono dunque il desiderio di vedere realizzato già ora qualcosa che noi desideriamo da tanto. Credo che ognuno di noi potrebbe portare un proprio esempio di quello che un sogno è, chi infatti non ha un desiderio, un sogno nel cassetto?
Anche Padre Luciano Marangon, da anni missionario in Malawi, ha un sogno che ormai ha lasciato il cassetto ed è diventato un programma di vita. Padre Luciano, nello speciale di questo numero, racconta il faticoso cammino, ancora incompiuto di un sogno, del suo sogno di vedere realizzata una stazione televisivia che, nel territorio del Malawi, possa essere strumento di informazione, formazione ed evangelizzazione. LUNTHA è il nome di questo canale televisivo, che in chichewa, la lingua del Malawi, vuoi dire abilità e capacità ma anche sapienza.
La domanda di fondo che nasce nel cuore di che ascolta la testimonianza di Padre Luciano è: riuscirà questo tenace missionario a veder realizzato il suo sogno? Riuscirà a concludere ciò che ha cominciato?
È difficile poter dare una risposta, come credo che anche per Martin Luther King sarebbe stato difficile prevedere gli effetti della sua testimonianza di pace. Ci viene però in aiuto la parola di Dio, la quale ci ricorda come non è tanto importante chi semina nella vigna del Signore e neppure chi raccoglie, la cosa importante è che Dio faccia crescere e maturare i frutti di questa vigna e come questo accade nessuno lo sa.
Al nostro confratello e amico Padre Luciano Marangon, auguriamo di essere veramente strumento nelle mani del Signore che solo può portare a buon fine ogni opera.

lunedì 23 marzo 2009

Un desiderio santo e sincero

di Alfio Mandelli

Per Luigi Maria da Montfort la ricerca e l’acquisto della Sapienza, Gesù Cristo incarnato e crocifisso, follia agli occhi degli uomini, è tutto! Bisogna, allora, che anche noi cerchiamo ardentemente la perla preziosa che è la Sapienza di Dio.
Ma serve silenzio per ascoltare e per ascoltarci, per lasciare emergere desideri e paure perché vi sono beni e beni, desideri e desideri ed occorre essere attenti. I desideri falsi si riferiscono a beni effimeri. Sono desideri interessati, che chiudono su se stessi. Luigi Maria li condensa nel triplice volto della falsa sapienza: l’amore dei beni della terra e la voglia di possedere; l’amore del piacere; l’amore degli onori e della stima.
Con questi desideri la creatura è messa al posto del Creatore.
I veri desideri, al contrario, sono sempre aperti all’altro, gratuiti e disinteressati. Il vero desiderio, per il Montfort è la Sapienza, Dio Creatore!
Il nostro desiderio di Dio e della Sapienza ha sempre bisogno di conversione e di essere ri-ordinato. «Occorre che tale desiderio della Sapienza sia santo e sincero» (AES 182) perché può essere mosso dalla volontà di catturare l’Infinito. Gesù stesso converte il desiderio di chi lo cerca o lo segue: dei primi discepoli (cf Gv 1,38), di Pietro (cf Mt 16,21-25), della madre dei figli di Zebedeo e dei loro amici (cf Mt 20,20-28). Gesù aiuta a cogliere il vero oggetto della ricerca perché c’è un cercare la Sapienza che può essere ambiguo. C’è la ricerca corretta e quella scorretta, quella autentica e quella falsata. Le folle cercano Gesù perché hanno visto i segni che ha compiuto sugli infermi e perché hanno mangiato i pani ma non hanno capito che la vita è entrare in relazione con Lui ed esistere come Lui (cf Gv 6,1ss). Anche Giuda (cf Gv 18,8) e la Maddalena (cf Gv 20,15) cercheranno Gesù, con un esito diverso perché è diverso lo spirito che li muove: dimorare presso di Lui e abbracciarlo, oppure rapirlo e tradirlo.
Gesù converte il nostro desiderio dal suo orizzonte egoistico perché accogliamo e ci lasciamo trasformare dal suo amore. Gesù desidera che noi sappiamo ciò che vogliamo, perché alla fine possiamo volere ciò che Lui stesso intende donarci. Solo allora il suo dono può scendere nella nostra vita!
Su questo cammino veglia la più tenera delle madri, Maria. Si accompagna a noi perché ci apriamo alla Sapienza, proteggendo il nostro cuore dalle luci illusorie e dal falso splendore della sapienza mondana.
Cammina accanto a noi, perché lasciamo crescere il desiderio della Sapienza che sempre sussurra all’orecchio del nostro cuore dolcissime parole d’amore.
Agisce in noi perché restiamo «fedeli a Gesù Cristo, Sapienza eterna ed incarnata, fuori del quale c’è solo smarrimento, menzogna e morte».

Apparteniamo a Gesù. Siamo schiavi?

di Abramo Belotti

“Noi non apparteniamo più a noi stessi, ma totalmente a Lui”. È il contenuto della seconda verità. Il Montfort, lo abbiamo già ricordato, si è avvalso di molti simboli per illustrare la nostra relazione con Cristo, ricorrendo a pagine evangeliche. I suoi richiami sono agili ed efficaci. Non si attarda più di tanto su di essi, ad eccezione del simbolo più impegnativo e più problematico per noi: la schiavitù. L’aveva già enunciato all’inizio del numero 68 “noi siamo cosa totalmente sua, come suoi membri e come schiavi che egli ha comprati... a prezzo cioè di tutto il suo sangue.” Scrive pure che siamo “suoi membri”. Sullo sfondo di questa tesi opera il simbolo tradizionale che paragona una società, anche la chiesa, ad un corpo: noi siamo membra di questo corpo. Fino qui il simbolo abituale. Da parte cristiana si aggiunge: Cristo è il suo capo.

Schiavi di Cristo?

La schiavitù è una condizione diffusa e pacifica al tempo della stesura del Nuovo Testamento. Il Montfort attinge a questa tradizione. Avverte però l’esigenza di precisare la portata dei termini usati, schiavo e servo, perché il quadro sociale della sua epoca era logicamente mutato rispetto a quello in cui erano sorte le prime comunità cristiane con i relativi scritti. Distingue il servo dallo schiavo, una distinzione necessaria, perché la servitù “comune tra i cristiani”, non esisteva nel mondo antico. Ne è consapevole e lo dice: “non c’erano allora servi come quelli di oggi, dato che i padroni erano serviti solo da schiavi o da liberti.” (VD 72) Analizza la schiavitù e ne individua tre tipi: schiavitù di natura, forzata, e volontaria. L’applica al nostro rapporto con Dio: tutti siamo schiavi di Dio per natura; i demoni e i dannati sono schiavi forzati; i giusti e i santi lo sono per scelta. Stabilisce un confronto tra le relazioni che scaturiscono dalla schiavitù e dal servizio e giunge a delle affermazioni che, se corrispondono a situazioni di fatto nella storia della schiavitù, non possono non suscitare, come minimo, imbarazzo quando ci si serve di esse per definire il nostro rapporto con Cristo e la Madre sua.

Insistenza opportuna?

Il Montfort per illustrare la schiavitù ricorre ad affermazioni del tipo: “Con la schiavitù, invece, uno...deve servire il padrone senza pretendere salario o ricompensa alcuna, quasi fosse una delle sue bestie sulle quali egli ha diritto di vita e di morte” (VD 69).
Non ci si sente certamente entusiasti e a proprio agio con questi accostamenti. Avranno pure un riscontro storico, ma la reazione nostra è più di disgusto e di ripulsa che di attenzione interessata. Viene spontaneo chiedersi: val la pena insistere con un linguaggio così truculento?

Schiavitù e amore
D’altra parte l’espressione: schiavo d’amore conserva un suo fascino. Schiavitù e amore sono termini che indicano un’appartenenza suprema tra persone, e forse per questo si richiamano. In realtà però presentano situazioni del tutto opposte. Mentre l’amore infatti determina una “subordinazione”, frutto di libertà, (sono io che decido di vivere questo tipo di relazione) la schiavitù invece si fonda e si nutre della totale negazione di libertà. (Io subisco, non decido la mia condizione). Si è schiavi quando non si è liberi. Si può amare invece solo quando si è liberi.
La schiavitù attinge il suo significato originario da un rapporto di dominio di una persona sull’altra; non esprime per nulla reciprocità e si realizza “negando” l’altra persona.
Lo schiavo viene percepito come una “cosa”, un oggetto sul quale si esercita il diritto di proprietà. Apparentemente è il modo di appartenenza più radicale che si possa realizzare. Sottolineo: apparentemente, perché di fatto si consuma il massimo della lontananza e della estraneità.
Potremmo dire che la schiavitù ha solo la possibilità di disporre di prestazioni esterne. Non raggiunge l’aspetto più prezioso della persona. Più si vuole “dominare” con la forza e la costrizione, più la relazione umana si impoverisce fino a scomparire. Questa ha la sua origine nella libertà che fiorisce nell’amore. Dire amore è dire due libertà che si incontrano e si donano. È vero: più grande è l’amore, più radicale è l’appartenenza. Ma presuppone sempre libertà e non è dipendenza.
Schiavitù e amore si richiamano anche per un altro motivo: sono frutto di un’iniziativa esterna alla persona; ma di natura diversa.
Lo schiavo subisce una violenza. L’innamorato invece accoglie liberamente una chiamata e la sua risposta è il risultato di una libera e gioiosa adesione. L’amore è tanto più vero quanto più è libero da condizionamenti.
È possibile allora usare l’espressione: schiavo d’amore? Sì, ma nella consapevolezza che, assieme all’aspetto che li avvicina e sembra imparentarli, cioè l’appartenenza totale, sono il risultato di due esperienze opposte: forzatura o libera scelta. Da una parte una forza che mortifica e costringe, dall’altra un invito e un’offerta che affascinano.
“Schiavi, ma alla scuola di Maria.
Un amore offerto da Dio in Cristo, e un amore accolto nello Spirito conduce alla risposta di una resa libera e incondizionata. Apparteniamo a Gesù e a Maria, non dimenticando il loro ruolo diverso, perché ci hanno amato radicalmente: cioè hanno posto le premesse che rendono possibile una libera adesione a questa attenzione amorosa. Solo in questa cornice ci si può vantare di essere “schiavi”, alla scuola della “serva del Signore”, Maria.

Sulle sue ginocchia la gloria del Signore

di Valentino Bosco

Tempo fa mi imbattei in un libro dal titolo ‘Le Pietà nell’arte’. Fra le tante che vi erano riportate, alcune attirarono la mia attenzione per la loro originalità. In questo articolo intendo riflettere su una di queste ‘Pietà’, firmata da uno scarabocchio che potrebbe essere interpretato come S. Scarti e denominata: “Sulle sue ginocchia la gloria del Signore’.

In positura offertoriale
La scena è collocata ai piedi di una croce folgorante avviata verso la dissolvenza, come se venisse risucchiata dalla Gloria di Dio. Del tutto originale è l’atteggiamento della Madonna, che tiene sulle ginocchia il Cristo morto con la testa che tende ad abbandonarsi sul petto della madre. Il capo di Maria è leggermente rialzato. L’interesse di Maria sembra rivolto non al corpo del figlio ma all’umanità, che le sta idealmente davanti. Gli occhi appaiono chiaramente interlocutori, come se fossero impegnati nel dialogo con qualcuno. Le braccia di Maria esprimono lo sforzo di sostenere il Cristo morto, nell’intento di presentarlo e consegnarlo. È un atteggiamento, quello della Vergine, che impegna l’intera persona, protesa in avanti, nell’intenzione di esternare con gesti attivi e intraprendenti il sentimento che domina in quel momento il suo animo: consegnare al mondo non un Gesù cadavere e sconfitto, ma un Gesù Vivo, Vittorioso, Glorioso, già Signore della storia.
Maria, abituata com’era a cogliere i fatti in profondità e a leggere gli eventi nel loro vero significato, dando ad essi la giusta dimensione e la giusta collocazione, fa capire di aver inteso il senso di quella tragedia e tenta di esprimerlo nel gesto, artisticamente ben delineato, di consegnare Gesù, prossimo alla risurrezione, quale salvatore del mondo per il quale egli era venuto.

“Bella nella passione di Cristo”
La migliore interpretazione del dipinto in questione l’ho trovato nell’inno cristologico di S. Paolo. “Il quale ( Cristo ) pur essendo di natura divina - non considerò un tesoro geloso - la sua uguaglianza con Dio - ma spogliò se stesso - assumendo la condizione di servo - e divenendo simile agli uomini - apparso in forma umana umiliò se stesso – facendosi obbediente fino alla morte – e alla morte di croce. - Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato un nome – che è al di sopra di ogni altro nome; - perché nel nome di Gesù – ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sottoterra; - e ogni lingua proclami che Gesù è il Signore – a gloria di Dio Padre” (Fil 2,5-11). Una tesi paolina che ricorre sovente nelle lettere dell’Apostolo e che trova riscontro nel Vangelo di S. Giovanni, per il quale la glorificazione di Gesù avvenne sulla croce e grazie alla croce. Nacque allo spirare del Cristo come risposta compiacente e riconoscente del Padre nei confronti di un Figlio che senza omettere neppure un iota, portò a compimento la missione affidatagli, compreso l’ultimo atto drammatico della passione e morte. In questa ottica Maria si era collocata e progressivamente vi si era addentrata, riuscendo ad adeguarsi talmente al pensiero di Dio da considerare lo scandalo della croce come il definitivo trionfo di Gesù sul male. Possiamo allora capire il perchè la croce veniva sovente chiamata dai Padri della Chiesa ‘trono’, ‘vessillo’, ‘trofeo’… addirittura ‘culla della salvezza’, ‘talamo’ su cui si sono consumate le nozze tra Cristo e la sua Chiesa. L’iconografia bizantina amava dipingere il Cristo in croce con gli occhi aperti, vestito con paludamenti regali, incoronato da una preziosa e gemmata. “Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me”.
L’innalzamento sulla croce per il ‘sentire’ teologico, spirituale e artistico degli orientali in genere, significava per Gesù salire gli ultimi gradini che ancora lo separavano dal trono, percorrere l’ultimo tratto di pista che ancora lo teneva lontano dalla vittoria e dall’incoronazione finale. Per fratelli orientali la croce di Cristo non poteva essere che gloriosa, a differenza di noi occidentali che per troppo tempo, specie a livello di devozione popolare, abbiamo evidenziato della croce l’aspetto dolorifico. Se per noi la ‘Pieta’ evidenziava l’aspetto drammatico e dolente del mistero della redenzione, per loro era già parte della dimensione pasquale. Una ‘Pietà’ pasquale! L’ inno dei vespri della festa dell’Esaltazione del Croce canta: “Ecco il vessillo della croce, mistero di morte di gloria… O albero fecondo e glorioso, ornato di un manto regale, talamo, trono e altare, il corpo di Cristo Signore… Bilancia del grande riscatto, che tolse la preda all’inferno… O croce unica speranza…”. Una glorificazione che rimarrà ‘costretta’ nella Kenosi ancora per tre giorni, per poi esplodere in tutto il suo fulgore e in tutta la sua potenza il giorno della Pasqua, allorché la pietra del sepolcro nel quale era rinchiuso ‘il crocifisso’, verrà definitivamente ribaltata. Un evento che Maria per fede già attendeva nel suo intimo: quella fede che non venne mai meno, fiamma che, unica fra tutti i seguaci di Gesù, continuò ad ardere vigorosa e luminosa, nonostante che la bufera dell’accaduto soffiasse in direzione contraria. La ‘Donna del terzo giorno’ la chiama T. Bello.
Mentre l’occhio umano vedeva solo i segni della Kenosi, l’occhio di Maria, il cui cristallino umano veniva potenziato da quello della fede, si spingeva in avanti. Tanto in avanti da oltrepassare il ‘dato di fatto’, che è morte e putrefazione, intravedendo, come abbiamo già accennato, il risvolto conclusivo e risolutivo di quella tragedia la gloria del Cristo risorto, l’Agnello pasquale, la sorgente della vita, l’albero della vita. Invece di versare lacrime e di innalzare lamenti pur legittimi ad una madre, la Vergine avrebbe voluto proclamare ‘a gran voce’ agli astanti: “Ecco qui l’Agnello di Dio che ha portato su di sé i peccati del mondo” (Gv 1,29), a Lui la gloria, la potenza, l’onore”. Una ‘Pietà’ vista in quest’ottica appare addirittura bella, come proclama un prefazio mariano: “Bella nella passione del Cristo, imporporata dal suo sangue, come mite agnella unita al sacrificio del mitissimo agnello, insignita di una nuova missione. Bella nella risurrezione del Signore, con il quale regna gloriosa, partecipe del suo trionfo”.