di Abramo Belotti
“Noi non apparteniamo più a noi stessi, ma totalmente a Lui”. È il contenuto della seconda verità. Il Montfort, lo abbiamo già ricordato, si è avvalso di molti simboli per illustrare la nostra relazione con Cristo, ricorrendo a pagine evangeliche. I suoi richiami sono agili ed efficaci. Non si attarda più di tanto su di essi, ad eccezione del simbolo più impegnativo e più problematico per noi: la schiavitù. L’aveva già enunciato all’inizio del numero 68 “noi siamo cosa totalmente sua, come suoi membri e come schiavi che egli ha comprati... a prezzo cioè di tutto il suo sangue.” Scrive pure che siamo “suoi membri”. Sullo sfondo di questa tesi opera il simbolo tradizionale che paragona una società, anche la chiesa, ad un corpo: noi siamo membra di questo corpo. Fino qui il simbolo abituale. Da parte cristiana si aggiunge: Cristo è il suo capo.
Schiavi di Cristo?
La schiavitù è una condizione diffusa e pacifica al tempo della stesura del Nuovo Testamento. Il Montfort attinge a questa tradizione. Avverte però l’esigenza di precisare la portata dei termini usati, schiavo e servo, perché il quadro sociale della sua epoca era logicamente mutato rispetto a quello in cui erano sorte le prime comunità cristiane con i relativi scritti. Distingue il servo dallo schiavo, una distinzione necessaria, perché la servitù “comune tra i cristiani”, non esisteva nel mondo antico. Ne è consapevole e lo dice: “non c’erano allora servi come quelli di oggi, dato che i padroni erano serviti solo da schiavi o da liberti.” (VD 72) Analizza la schiavitù e ne individua tre tipi: schiavitù di natura, forzata, e volontaria. L’applica al nostro rapporto con Dio: tutti siamo schiavi di Dio per natura; i demoni e i dannati sono schiavi forzati; i giusti e i santi lo sono per scelta. Stabilisce un confronto tra le relazioni che scaturiscono dalla schiavitù e dal servizio e giunge a delle affermazioni che, se corrispondono a situazioni di fatto nella storia della schiavitù, non possono non suscitare, come minimo, imbarazzo quando ci si serve di esse per definire il nostro rapporto con Cristo e la Madre sua.
Insistenza opportuna?
Il Montfort per illustrare la schiavitù ricorre ad affermazioni del tipo: “Con la schiavitù, invece, uno...deve servire il padrone senza pretendere salario o ricompensa alcuna, quasi fosse una delle sue bestie sulle quali egli ha diritto di vita e di morte” (VD 69).
Non ci si sente certamente entusiasti e a proprio agio con questi accostamenti. Avranno pure un riscontro storico, ma la reazione nostra è più di disgusto e di ripulsa che di attenzione interessata. Viene spontaneo chiedersi: val la pena insistere con un linguaggio così truculento?
Schiavitù e amore
D’altra parte l’espressione: schiavo d’amore conserva un suo fascino. Schiavitù e amore sono termini che indicano un’appartenenza suprema tra persone, e forse per questo si richiamano. In realtà però presentano situazioni del tutto opposte. Mentre l’amore infatti determina una “subordinazione”, frutto di libertà, (sono io che decido di vivere questo tipo di relazione) la schiavitù invece si fonda e si nutre della totale negazione di libertà. (Io subisco, non decido la mia condizione). Si è schiavi quando non si è liberi. Si può amare invece solo quando si è liberi.
La schiavitù attinge il suo significato originario da un rapporto di dominio di una persona sull’altra; non esprime per nulla reciprocità e si realizza “negando” l’altra persona.
Lo schiavo viene percepito come una “cosa”, un oggetto sul quale si esercita il diritto di proprietà. Apparentemente è il modo di appartenenza più radicale che si possa realizzare. Sottolineo: apparentemente, perché di fatto si consuma il massimo della lontananza e della estraneità.
Potremmo dire che la schiavitù ha solo la possibilità di disporre di prestazioni esterne. Non raggiunge l’aspetto più prezioso della persona. Più si vuole “dominare” con la forza e la costrizione, più la relazione umana si impoverisce fino a scomparire. Questa ha la sua origine nella libertà che fiorisce nell’amore. Dire amore è dire due libertà che si incontrano e si donano. È vero: più grande è l’amore, più radicale è l’appartenenza. Ma presuppone sempre libertà e non è dipendenza.
Schiavitù e amore si richiamano anche per un altro motivo: sono frutto di un’iniziativa esterna alla persona; ma di natura diversa.
Lo schiavo subisce una violenza. L’innamorato invece accoglie liberamente una chiamata e la sua risposta è il risultato di una libera e gioiosa adesione. L’amore è tanto più vero quanto più è libero da condizionamenti.
È possibile allora usare l’espressione: schiavo d’amore? Sì, ma nella consapevolezza che, assieme all’aspetto che li avvicina e sembra imparentarli, cioè l’appartenenza totale, sono il risultato di due esperienze opposte: forzatura o libera scelta. Da una parte una forza che mortifica e costringe, dall’altra un invito e un’offerta che affascinano.
“Schiavi, ma alla scuola di Maria.
Un amore offerto da Dio in Cristo, e un amore accolto nello Spirito conduce alla risposta di una resa libera e incondizionata. Apparteniamo a Gesù e a Maria, non dimenticando il loro ruolo diverso, perché ci hanno amato radicalmente: cioè hanno posto le premesse che rendono possibile una libera adesione a questa attenzione amorosa. Solo in questa cornice ci si può vantare di essere “schiavi”, alla scuola della “serva del Signore”, Maria.
lunedì 23 marzo 2009
Apparteniamo a Gesù. Siamo schiavi?
Etichette:
Rivista Apostolo di Maria
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento