venerdì 5 dicembre 2008

Il buon samaritano


Molti cattolici, anche fra quelli addetti all’esaltato “progetto culturale” usano dimenticare il cattolicissimo poeta francese Paul Claudel (1868-1955). Alcuni anni fa al poeta della linea lombarda Giovanni Raboni, in un convegno romano, scappò detto che a chi gli chiedeva chi fosse il maggiore dei poeti francesi del Novecento non poteva che rispondere Paul Claudel, ahimè, come Charles Baudelaire additava Victor Hugo per l’Ottocento. Papa Ratzinger da giovane ha ben letto Claudel. Non per niente, qualche mese fa, pellegrinando verso Lourdes, ha ricordato pubblicamente in maniera particolare la conversione del giovane Claudel nella cattedrale di Notre-Dame de Paris, dove si verificò. Ma tant’è, in Italia per gli ammiratori Claudel resta solo il drammaturgo di“ L’Annonce faite à Marie” e per i detrattori il “gorilla cattolico” che tentò di convertire il venefico André Gide, e il fratello che lasciò recludere in un manicomio la sorella Camille, straordinaria scultrice, sedotta e abbandonata da Rodin.
Amo Claudel. Ne leggo assiduamente le poesie, i drammi, le prose e il “Journal”. Ne ho tradotto “Le Chemin de la Croix” che ho consegnato in anteprima al regista Mel Gibson che girava “The Passion” a Matera, l’“Hymne du Saint Sacrement” per un’ordinazione sacerdotale, e in questi giorni, “Le Bon Samaritain”, per l’anniversario dell’Atto costitutivo della Fondazione Lucana Antiusura. Proprio su questo testo voglio intrattenere i lettori. Trascorrono giorni in cui la crisi economica glocale, come ormai si dice, snida non poche persone dalle loro nicchie, e le trascina a moltiplicare solidarietà. Urge una nuova figura di buon Samaritano. Una completa riflessione teologica sulla parabola che lo celebra è reperibile nel libro su Cristo di Benedetto XVI. Ma il lettore non mancherà di apprezzare l’interpretazione di Paul Claudel pur segnata qua e là anche da qualche scatto ombroso.
Per lui il buon Samaritano è quell’opportunista che approfitta del fatto che siamo tramortiti per salvarci la vita. Si sa che non di rado gli uomini hanno più idiosincrasia che simpatia per i simili. Non sopportano in particolare chi si propone di fargli del bene. Io, nelle mani di un buon Samaritano? Ma va là. E così tutti, uno dopo l’altro, cavalchiamo spavaldamente, ostentando autosufficienza, sulla strada che va da Gerusalemme a Gerico. D’improvviso qualcosa non va laggiù: un grido, lo scarto d’un cavallo, un cavaliere atterrato. Eccolo lì su un mucchio di pietre, seminudo e malmenato con metodo. L’oltrepassa un sacerdote, abbassando gli occhi con modestia. Passa oltre il levita dall’acerbo cuore tremitante. Mentre il Samaritano, terzo a seguire, ne ha le viscere sconvolte.
Il poeta legge la figura del soccorritore immedesimandosi nel viandante soccorso. Ha proprio di fronte quello che il catechismo chiama il Nostro Prossimo. Il meglio di lui è che non articola chiacchiere. È un piacere per ambedue non conoscersi. Poi il poeta sposta l’attenzione sull’operosità benefica e sui pensieri vorticanti anche se muti del Samaritano. “Nelle sue mani il vino conserva tutto il suo vigore e l’olio è un sacramento di dolcezza.” Il ferito si riprende, può essere affidato a un albergatore. Lo curi, ecco il denaro per la convalescenza. Pazienza se gli mancherà per comprare la veste promessa alla moglie e rimborsare un creditore. Non c’è bisogno di fornire le generalità. Il beneficato restituirà a tutti gli altri uomini. Non secernerà odio contro il benefattore incognito. “Che cosa c’è di più innocuo di un beneficio quando siamo garantiti contro la riconoscenza?”.
Con brutalità intellettuale tutta francese, il poeta prende a riflettere su che cosa succede quando “per caso o per debolezza o per capriccio” rendiamo un servizio a qualcuno. Quanto imbarazzo, quanta recita consapevolmente insincera e contaminata nell’una e nell’altra posizione, quanto calcolo, quanta perdita di grazia umana! Possibile che non si possa essere più naturali? Ma prendi tutto ciò che ho, figlio mio, e non dirmi grazie. Un fiume esiste per dar da bere anche a un solo agnello. Un albero esiste per dar da mangiare a quel popolo di volatili che al suo riparo contendono e trangugiano i frutti con i nòccioli. Che c’è di più delizioso del micromondo fra noi e attorno a noi, che si nutre di noi, e che canta, e che ride, e che piange, e che confligge, e che, sicuro che gli apparteniamo, non si occupa più di noi, come non esistessimo?
Nella parte finale della composizione Paul Claudel sfodera una interpretazione personale della parabola. Chi è, si chiede, questo benefattore che si ripara dietro l’incognito? In realtà, risponde i benefattori sono due. Il primo è quello che ci ha assaltati, bramoso da ciò che abbiamo di più intimo, ci ha spogliati, ha messo in fuga il cavallo dell’orgoglio con cui formavamo una sola bestia, e ci ha aperto la mente con quattro legnate, rendendoci saggi e, nello stesso tempo, inermi. Poi è arrivato il secondo benefattore. “Ah! divino medico, sei tu! Io non ero proprio così morto come fingevo!” Il poeta gli chiede di porgli la mano sul cuore renitente, di guarirlo dalla vita, di sottrarlo con più severa chirurgia a vizi dimidiati, a un egoismo senza convinzione, ad abitudini senza passione, ai peccati in cui non comprende nemmeno ciò che gli è carpito e sottratto. Al divino Samaritano il poeta lancia una sfida: “Ah! dispiega pure tutte le simulazioni e le precauzioni che vuoi. Non mi coglierai di nuovo alla sprovvista, ora sto allerta! E mentre ti credi ben camuffato tu vedrai d’improvviso gli occhi di questo finto morto che piangono e ti guardano”.
Alla fine per Claudel il buon Samaritano è per eccellenza Gesù Cristo, come quasi ottanta anni dopo per Benedetto XVI nel libro su Cristo.
I cattolici, che non sono lettori-avvoltoi che divorano libri-carogne e ritengono con Kafka che i libri buoni colpiscono come un pugno e disordinano il pensiero abitudinario, devono riscoprire l’opera di Paul Claudel. Che è poeta luminoso, liturgico, appassionato, dalle leve creative possenti, sgradevole e acuminato, come si richiede in una stagione bisognosa di redenzione.

Basilio Gavazzeni

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