I lanci delle agenzie di stampa sono ogni giorno più drammatici. Parlano di migliaia di sfollati, di una marea di persone che cerca scampo dai combattimenti. Parlano di profughi, di donne e bambini, vittime di epidemie, di malnutrizione, di violenza sessuale. Stiamo parlando del Nord del Kivu, regione nell’est della Repubblica Democratica del Congo e del nuovo e sanguinoso capitolo di un conflitto ribattezzato “la prima guerra mondiale africana” con un carico di cinque milioni di morti dal 1998 ad oggi. Il conflitto più sanguinoso dalla fine della seconda guerra mondiale. Ma quali sono le ragioni?
Una terra ricca e sfruttata
Dalla caduta di Mobutu nel 1997, l’ex Zaire, chiamato oggi Repubblica democratica del Congo (RDC) vive in uno stato di instabilità. Ricca di minerali e molto eterogenea sul piano demografico, la regione del Kivu è stata fortemente destabilizzata a seguito del genocidio del Ruanda, paese confinante, avvenuto nel 1994 ad opera degli hutu all’epoca al potere. Sconfitti militarmente e perseguitati dai ribelli tutsi di Paul Kagame, centinaia di migliaia di hutu fuggirono nel Congo del dittatore Mobutu. Nel 1996, per far cessare le continue incursioni degli hutu sconfinati, che partivano proprio dal territorio congolese, il nuovo regime di Kigali, ormai in mano tutsi, patrocina e aiuta gli oppositori al regime di Mobutu che fanno capo a Laurent-Désiré Kabila, che va al potere nel maggio 1997. Un anno dopo Kabila rompe con i suoi sostenitori ruandesi diventati, a suo dire, troppo invadenti e chiede aiuto all’Angola ricevendo il sostegno militare di altri paesi di questa tormentata regione. Preoccupano infatti gli appetiti di Ruanda e Uganda per le enormi ricchezze del Congo. La terra congolese diventa teatro di un conflitto che dura fino al 2002 quando viene firmato l’accordo di pace, sotto gli auspici dell’Africa del Sud. Pace che però non riguarderà la regione del Kivu.
A partire dal 2003, il Congo vive un periodo di transizione politica durante la quale i diversi gruppi ribelli che erano proliferati nel conflitto vengono progressivamente associati al potere. Per quanto nominato generale di brigata in seno al nuovo esercito congolese, l’ex capo ribelle Laurent Nkunda si rifiuta di sottomettersi al regime di Joseph Kabila, al potere dal 2001 dopo la morte del padre misteriosamente assassinato. Vicino ai ruandesi, il generale dichiara di non aver alcuna fiducia che il potere centrale possa proteggere la sua comunità di appartenenza, i congolesi di origine tutsi, dall’aggressione dei massacratori hutu ancora presenti nella regione. Su pressione internazionale nel gennaio 2008 Nkunda firma un accordo con Kinshasa che però salta dopo pochi mesi senza alcuna ragione apparente se non la sfiducia mai dissipata delle due parti in causa.
Si può parlare di un conflitto etnico o politico economico? è la giusta domanda da porsi. Arrivati in ondate successive in Congo nel corso di tutto il XIX secolo, i Tutsi che abitano nel Kivu continuano a essere considerati degli stranieri. Il genocidio avvenuto in Ruanda e il sanguinoso conflitto che ne è seguito nell’ex Zaire hanno moltiplicato le tensioni. Ma queste sono strumentalizzate sia dal governo di Kinshasa per rinforzare il suo potere sia da quello del Ruanda. Quest’ultimo ha sempre smentito di appoggiare i ribelli di Nkunda, ma gli stessi americani, che sono i principali alleati del Ruanda, hanno denunciato l’implicazione di Kigali nel conflitto attuale. Da dieci anni il potere di Paul Kagame ha come obiettivo quello di mantenere il controllo sul Kivu per ragioni di sicurezza alle frontiere, ma anche per continuare a sfruttare le ricchezze che si nascondono nel sottosuolo di questa sfortunata regione: oro, rame, coltan, petrolio. Al saccheggio di questa immensa fortuna naturale – che ha fatto dire ai vescovi congolesi che questa guerra è solo un “paravento” - partecipa anche l’Uganda. Guerra che mette a nudo, una volta di più, l’impotenza dell’Onu, presente con 17.000 caschi blu, a far rispettare gli accordi presi.
Cosa fare?
La Commissione Justitia e Pax degli Istituti missionari italiani ha redatto un documento sulla situazione del Congo ed ha elencato alcune proposte:
- Organizzare con urgenza l’azione umanitaria;
- Partire dagli accordi firmati tra le parti. Ci riferiamo in particolare agli accordi di Nairobi del novembre 2007 (disarmo dei gruppi armati dei profughi hutu rwandesi) e l’accordo firmato a Goma che dava vita al “Progetto Amani” per il disarmo di tutti i gruppi armati;
- Rafforzare la presenza delle Nazioni Unite;
- Garantire la trasparenza delle concessioni minerarie e di legname affinché siano bloccate le transazioni illegali;
- Arrivare ad accordi stabili per evitare sconfinamenti da parte dei paesi confinanti;
- Risolvere il problema della presenza nel Kivu dei profughi hutu rwandesi, distinguendo le responsabilità e non colpevolizzando l’intera comunità;
- Far rispettare la legalità internazionale attraverso l’esecuzione dei mandati di arresto emessi dalla Corte penale internazionale e la valutazione da parte della medesima corte se esistano gli estremi per emettere un mandato di arresto nei confronti di Laurent Nkunda e di altri combattenti;
- Instaurare un dialogo ad oltranza che ridoni fiato alla politica e blocchi ogni scorciatoia di violenza armata;
- Decidere una moratoria nella vendita di armi ai paesi della Regione, primi fra tutti la Repubblica Democratica del Congo, il Ruanda e l’Uganda;
- Sostenere gli sforzi della società civile organizzata affinché possa svilupparsi sempre più il processo di riconciliazione.
Facciamo appello - termina il documento - all’Italia, che è membro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, perché svolga un ruolo attivo in quella sede e all’Europa, che ha in gran parte finanziato il processo elettorale, affinché vengano rispettati i diritti delle persone, sviluppata la democrazia, fermata ogni aggressione armata e finalmente raggiunta la pace.
Daniele Rocchetti
venerdì 5 dicembre 2008
Il lungo dramma del Congo
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Rivista Apostolo di Maria
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