sabato 13 dicembre 2008

La fame morde a Balaka


Arriva sempre come un messaggio a voce bassa. Non e' mai piu' che un sussurro.
La fame. In casa sono i bambini a ripeterlo come un ritornello. Ho fame! Voglio qualcosa da mangiare.
Poi d'improvviso cresce a dismisura. Non e' piu' solo una famiglia, e' un villaggio intero.
Ed e' il villaggio che si riversa nella cittadina di Balaka dove c'e' il deposito di grano del governo,
sperando di poter comperare almeno un po' di mais anche se a prezzi esorbitanti.
E' quello che ancora una volta siamo chiamati a testimoniare:
oltre venti mila famiglie di contadini senza grano nella sola zona di Balaka
che non sanno piu' cosa fare.
E ancora una volta questo e' solo l'inizio.
Le cause sono state tante. Prima l'inondazione che ha distrutto in alcune zone tutto il raccolto,
poi le lunghe settimane senza pioggia quando il grano cominciava a crescere e ne hanno
fermato la maturazione inaridendo tutto il raccolto.


Mancano 12 giorni al Natale e il giornale nazionale The Nation si fa portavoce di una situazione ripetendo a distanza di pochi giorni,

LA FAME MORDE A BALAKA
Gia' una persona morta a causa della fame,
Non ci sono piu' mango per sopravvivere alla fame.

E la nonna a ripetere che ormai fa bollire delle erbe raccolte lungo la strada per riuscire ad assopirsi e dormire, sperando in qualche Buon Samaritano, che si ricordi di lei


Il giornale ripete ancora una volta la storia del nonno che si trascinava lungo la strada
chiedendo la carita' e sperando nel buon cuore di qualcuni che lo aiutasse.
Dopo giorni senza niente da mangiare e' stato letteralmente portato via dalla fame.


L'editoriale sempre di oggi analizza le cause, e soprattutto fa un conto facile.
Se ventimila famiglie non hanno cibo, sono attualmente oltre cento mila le persone
che soffrono questa situazione di fame.
Parla dei prezzi del grano che si sono improvvisamente raddoppiati certamente
anche a causa di speculazioni che sono la causa e l'effetto di questa emergenza.
Racconta anche dei 29 billioni di Kwacha che il governo ha distribuito in forma di fertilizzante
e sementi, a volte illudendosi di aver risolto il problema. E dice anche di leaders che
si stanno improvvisamente arricchendo oltre le loro possibilita' e salari.


Quattro articoli in due pagine a ripetere lo stesso messaggio.
Un richiamo importante per tutti. Per il governo e le chiese e chiunque e' presente
in questa piccola cittadina che si trova improvvisamente al centro dell'attenzione nazionale.
La fame, ancora.
Un altro Natale da celebrare in silenzio, cercando di condividere tutto quanto e' possibile.

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Il Natale degli Orfani di Balaka.
Ogni anno a Balaka il gruppo dell'Adozione a Distanza organizza una grande festa per celebrare
la gioia della vita. Anche la vita povera di un orfano a Natale si rafforza nel sentirsi parte di una grande famiglia.
Quest'anno non abbiamo potuto aspettare che gli angeli venissero a cantare la pace sulla terra.
E' stata una domanda generale, il Natale deve venire in fretta...
Oggi abbiamo festeggiato il Natale degli orfani a Phalula-Kanono.
Di seguito sara' Natale a Chiyendausiku martedi' 16 Dicembre.
Il 18-19 sara' per la missione di Mponda.
Il 22 saremo a Utale I e Mpulula,
Il 23 a Mbera
Il 24 a Toleza...

e poi sara' Natale.
Quest'anno celebreremo la messa della notte alla Casa a Meta' Strada, con i ragazzi e le ragazze uscite dal carcere e che qui hanno trascorso cinque mesi per prepararsi a ritornare a casa dopo anni di prigione.
Vi racconteremo anche del Natale sulla montagna del Chaone la domenica 28 dicembre e per finire quest'anno il 30 saremo a Mpiri alla casa del Catechista Msosomera Venansio che quest'anno festeggia cento anni...
come la missione di Utale e tutta la diocesi di Mangochi.
Vi aspettiamo. e dalla condivisione vinceremo anche la fame.

zikomooo e un carissimo saluto dal Malawi.

Tam Tam
Chiara Carminati

martedì 9 dicembre 2008

Maria Sede della Sapienza - Capella dell'Università di Lovanio (Belgio)



Davanti a questa immagine lignea di Maria Sede della Sapienza, secondo una tradizione ininterrotta che risale ai tempi del Medio Evo, si apre l'anno accademico della prestigiosa università di Lovanio con la prolusione del Rettore Magnifico. Quando si dice: "Le radici cristiane dell'Europa"!

venerdì 5 dicembre 2008

Progetto Lunkuswe - Una scuola per crescere


Carissimi, eccomi ormai da quattro mesi a Kalichero, una parrocchia della diocesi di Chinata in Zambia, che si estende per un raggio di circa 40 km. Il numero dei Cattolici è di circa 15.000. Molti, poi, sono i cristiani Riformati e molte, purtroppo, sono le sette. La presenza mussulmana è invece limitata. Complessivamente nel territorio vivono circa 60.000 persone.
Il territorio parrocchiale è diviso in 10 zone e queste a loro volta sono suddivise in più di 50 piccole comunità che comprendono più villaggi. In ogni zona sorge una chiesa dove, ogni 5-6 settimane, si riuniscono le comunità per celebrare la Messa.
Carissimi amici è in questa nuova realtà zambiana che mi sto progressivamente inserendo, anche se molto lentamente. Qui sto iniziando ad apprendere il Chinyanja e credo che mi ci vorrà molto tempo.
Sono tanti i progetti e i sogni che animano i nostri cuori, perché tanti sono i bisogni e grande è la speranza. Le sfide che attendono le nuove generazioni africane sono numerose e ci coinvolgono direttamente perché l’altro (bianco, nero o giallo che sia) non mi è indifferente. Nessun popolo, come nessun uomo, può bastare a se stesso. Africa e Occidente, noi e loro abbiamo bisogno di camminare insieme. Così, di seguito vi propongo un piccolo progetto.
Il progetto di Lunkuswe prevede la realizzazione di una scuola, alcune case per i maestri e l’ultimazione di una chiesetta. A Lunkuswe esiste già una scuola costruita e gestita dalla comunità locale, ma la situazione è molto precaria (come vedete dalla foto) perché manca tutto. Mancando di strutture adeguate, mancano i maestri qualificati e, conseguentemente, non si raggiungono i livelli di studio previsti dal governo zambiano per le scuole primarie.
La comunità di Lunkuswe si è rivolta così alla parrocchia per chiedere aiuto. Serve una nuova scuola con strutture adeguate e servono pure delle case per i maestri. Solo così infatti lo Stato (che non ha risorse per costruire ma solo per gestire) manderà dei maestri qualificati e se ne prenderà carico facendola diventare statale.

Domenico Pedullà

Congo - Un mulino per macinare riso e manioca


La situazione della Repubblica Democratica del Congo (RDC) politicamente è ancora in alto mare e la guerra nel territorio orientale del paese (dove noi abitiamo) è sempre in agguato perché le milizie ribelli sono ancora sul posto: sono troppi gli interessi economici e politici e la corruzione è altissima.
Viviamo a Kisangani, la ‘Stanley ville’ di una volta, la capitale di questa provincia, un milione di abitanti. Una volta era anche la capitale dei diamanti e dei minerali. Ora il mercato si è spostato verso il Rwanda e l’Uganda (a Goma) dove non ci sono controlli.
Ecco il nostro progetto per la compera di un MULINO per RISO e manioca.
A Kisangani abbiamo una casa di formazione per i nostri studenti di filosofia, e tre parrocchie. Per essere autosufficienti almeno per il cibo nel 1995 abbiamo ottenuto dal governo 35 ettari di foresta per un progetto agricolo.
Con gli studenti abbiamo già incominciato il disboscamento e la piantagione di legumi, soprattutto la manioca con la quale si fa il ‘fufu’, la nostra polenta, cibo base in quasi tutto il Congo.
I nostri progetti sarebbero tanti ma il capitale per incominciare non basta mai.
Abbiamo già alcuni maiali, 4 capre e una decina di anatre. Abbiamo in programma una piantagione di 5 ettari di Palme di olio, 5 ettari di piante da legna e frutta, ma soprattutto allargare la RISAIA troppo piccola. Il Congo ha il bacino d’acqua più grande del mondo, piove regolarmente per tutto l’anno e il riso non ha stagione.
Ma la nostra richiesta di aiuto va soprattutto al MULINO perché aiuterebbe molto la popolazione attorno a noi.
A Kisangani arriva la maggior parte del riso prodotto lungo il corso del Fiume Congo perché c’è l’elettricità e ci sono almeno 5 mulini sulle sponde del fiume Congo dove le piroghe arrivano cariche di tonnellate di riso ogni giorno. Non c’è invece all’interno.
La nostra piantagione sta a 8 Km dal fiume e il mulino aiuterebbe molti di quelli che coltivano il riso nei villaggi densamente popolati della periferia.
La spesa del mulino per il riso è di circa € 6 mila.
Ci conto molto su questa richiesta che potrebbe influire e cambiare davvero sia lo stile della nostra piantagione sia la popolazione attorno a noi che sarà comunque molto incentivata e motivata nella produzione del riso e della manioca, sfruttando così le enormi risorse agricole del paese.

Possa il Signore che ha creato il mondo per essere abitato e sfruttato per il bene di tutti, benedire il vostro gesto di generosità. A Lui solo sia la lode per sempre.

di Eugenio Cucchi

Madagascar - Un sogno realizzato


Carissimi lettori, ciao. Tempo fa, tramite l’Apostolo di Maria, ho lanciato un appello in favore dell’orfanotrofio di Salazamay-Taomasina in Madagascar. Quest’opera, fondata da Suor Clelia Piroddi, ormai rientrata in Italia nel 2006 per seguire un nuovo incarico affidatole dalla congregazione delle Figlie della Sapienza, necessitava di urgenti lavori di ristrutturazione.
Era un bisogno reale e urgente quello di ripristinare l’orfanotrofio, che preferirei chiamare “Casa - Famiglia”, e che ospita attualmente trenta ragazzi.
A suor Clelia, nel compito di dirigere la casa, è succeduta poi suor Pierrette. In quel periodo gli ospiti della Casa - Famiglia aumentavano, e la casa cominciava ad essere stretta. Fu nel novembre del 2006 che degli amici italiani in visita, passando nella Casa - Famiglia notarono come la struttura si rivelasse insufficiente per le esigenze degli orfani. Da loro nacque l’idea e il desiderio di fare qualcosa! Loro si sarebbro impegnati a cercare parte dei fondi necessari ai lavori, ed io avrei fatto la stessa cosa cercando di aggiungere la parte che mancava. Iniziai a spedire lettere ed e-mail un po’ qua e là, anche a voi, amici lettori, ai confratelli italiani, ai parenti agli amici, inclusi i coscritti del ‘58 di Pedrengo. Dopo poco tempo, cominciarono ad arrivare le offerte. Nell’agosto del 2007, anche il gruppo “Give me a pen”, nelle persone di Luigi, Simone, Francesco e Myriam, contribuiva a far crescere il gruzzolo delle offrete. Ma il progetto richiedeva investimenti di una certa consistenza, e la ciffra necessaria era ancora un po’ lontana dall’essere raggiunta.
Nonostante questo continuavo a darmi da fare, scrivendo ancora qua e là a vari benefattori che nei miei 20 anni di presenza in Madagascar, mi hanno sempre sostenuto. A queste nuove richieste seguiva una nuova “ondata” di offerte, che ci permetteva di tirare il fiato e soprattutto di dare avvio ai lavori.
La nuova ala della Casa - Famiglia, che si svilupperà interamente sul piano terreno, comprenderà: due stanze per le suore che lavorano con gli orfani, un refettorio grande per tutti (ragazzi e ragazze), un dormitorio per le ragazze con 20 posti letto, l’insieme delle docce e dei sanitari e la stanza che farà da guardaroba.
Sì, devo riconoscerlo, l’idea, prima che si realizzasse, si è presa del tempo per maturare. Abbiamo ben ponderato il “cosa” e il “come” fare. Pur se bello, abbiamo messo da parte il progetto che prevedeva un piano rialzato. I costi erano troppo elevati per le nostre possibilità. Abbiamo cercato la funzionalità, la semplicità, senza nulla togliere alla bellezza!
Un’idea ha preso corpo dalla generosità e dalla solidarietà di molte persone e ci ha ricordato ancora una volta come il fare insieme sia bello! A nome di tutti i ragazzi ospiti dell’Orphelinat Foyer Montfort e delle suore responsabili, presento a voi tutti il nostro, il mio, sentito GRAZIE!

p. Orazio Rossi,
BP 431 Salazamay
501 Toamasina - Madagascar

Frutto maturo per il cielo


Questo anno ricorre il decimo anniversario della morte di Salvatore Zuppardo un giovane siciliano che, nella sua breve esistenza stroncata dalla malattia, ha avuto il privilegio di fare una esperienza profonda e intima della presenza di Maria nella sua vita, favorito in questo anche dall’incontro con gli scritti del santo di Montfort. Un grazie a coloro che hanno fatto pervenire la testimonianza di questo giovane e che mantengono viva la sua memoria nella comunità cristiana. Dall’albero della Croce, su cui è maturato Cristo, la primizia, la Chiesa continua a cogliere ogni giorno nuovi frutti.
Chi è Salvatore Zuppardo?

Si tratta di un giovane siciliano, nato a Gela (CL) il 30 maggio 1974 e salito in cielo il 30 novembre di dieci anni fa all’età di 24 anni. Aveva meno di 18 anni quando conobbe la Comunità delle Beatitudini. Da questa esperienza è nato in lui il desiderio di andare in Francia alla volta di Lisieux, dove ha avuto modo di innamorarsi di santa Teresa di Gesù Bambino e di approfondire la conoscenza di san Luigi Maria Grignion de Montfort.

Questi incontri hanno dato la svolta della sua vita.
In particolare l’incontro in Francia col fondatore della Comunità delle Beatitudini, è stato la spinta decisiva che lo ha convinto a entrare nella casa comunitaria di Pettineo (Messina) e in seguito a dare inizio, con alcuni altri giovani, a una comunità delle Beatitudini nella sua città natale, Gela.

Come tratteggiare il profilo spirituale di Salvatore?

Salvatore era innamorato di Gesù e di Maria, che chiamava “la mia dolce e tenera Madre” e ha scelto di dedicarle la vita. Venuto a conoscenza della dottrina monfortana della consacrazione a Cristo per le mani di Maria, decise di introdurre nella preghiera del sabato, l’atto di Consacrazione a Gesù, Sapienza eterna e incarnata, per le mani di Maria.

Impregnato della spiritualità monfortana…

Aveva anche scritto un atto di Consacrazione con il quale ha voluto esprimere la sua totale appartenenza a Cristo Salvatore: “O Gesù redentore, io mi consacro a Te! / Con questo atto io voglio rendere sempre attuale la mia consacrazione battesimale, / per essere realmente un solo essere con Te. / Tu in me e io in Te! / Io tutto tuo e Tu mio Tutto: / mia vita, mia roccia, mia fortezza, / mio scudo, mio baluardo, mia sicurezza, mia pace. / Sei Tu che vuoi vivere, amare e operare ogni cosa in me, / come la vite che produce molto frutto nel tralcio. / Che io mi lasci fare e mi lasci condurre da Te, / con la massima prontezza e docilità. Amen”.

Un giovane docile all’azione della grazia
Sotto la guida sicura di Maria, ha imparato a riconoscere la centralità di Cristo nel suo cammino di discepolo, iniziato con il dono del Battesimo. Il dono di tutto se stesso a Gesù, è partito proprio da qui, dalla consacrazione battesimale, fulcro della vera devozione insegnata dal Montfort. Una consegna che non basta fare una volta, ma che ha bisogno di essere rinnovata ogni giorno e attuata con scelte concrete. Una consegna che ha fatto di Salvatore un tralcio innestato nella vera vite e lo ha reso capace di portare frutti di vita eterna.

Quali sono i frutti di questa spiritualità?

I frutti della breve, ma intensa vita di Salvatore, sono ancora oggi visibili nelle persone che lo hanno incontrato, nei gruppi di preghiera da lui avviati, nelle iniziative sorte a suo nome nella parrocchia che lo ha visto nascere, crescere e salire al cielo.

La sua testimonianza più grande è venuta durante la sua malattia

Salvatore aveva un cuore grande e quello che era suo lo donava agli altri, così come lui stesso si donava. Era instancabile, lui che non poteva stancarsi troppo. Quando soffriva per le crisi emolitiche, sopportava in silenzio il forte dolore che lo colpiva e lo donava con amore al buon Dio. Nel suo diario aveva scritto tanti pensieri sul dolore e sulle prove da sopportare per amore di Gesù. Una in particolare è diventata il suo messaggio che spesso offriva come conforto alle persone sofferenti: Un giorno giunti davanti al Signore / avremo sul capo un corona adornata di pietre preziose, / tra cui le più belle saranno : le sofferenze, / le ferite, le prove sopportate con amore.
Per lui, infatti, la sofferenza era un dono, “la strada che ti porta a Dio”. Quando un amico od un’amica stava male lui li confortava con un amore senza limiti. Quando venne operato alle corde vocali, a Verona, un mese prima della sua nascita in cielo, dopo di lui operarono un ragazza. E lui, nemmeno mezz’ora dopo l’intervento andò a consolare quella ragazza nella stanza accanto. La ragazza così testimonia : “Il giorno che sono stata operata, Salvatore mi è stato vicino più degli altri ; soffrivo, ma i suoi baci sulla mia fronte e le sue carezze mi hanno dato tanta forza ; era bello sentire il grande calore che mi trasmetteva.

Marco Pasinato

Gli angeli del Piccolo Paradiso



Domitilla Rota Hyams è nata ad Almeno S. Bartolomeo nella frazione Albenza, nel 1918. Dopo l’otto settembre del 1943, la sua famiglia accolse due prigionieri sud africani i quali erano scappati dal campo di prigionia della Grumellina, in quel di Bergamo. Dal momento che uno si era fatto male scappando e non poteva camminare, la famiglia di Domitilla accettò di tenere nascosti i due nel proprio cascinale. Fu durante questo periodo che Domitilla e Daniele si conobbero. L’otto settembre del 1947, dopo essere stato a casa, Daniele Hyams tornò in Italia e sposò Domitilla.
Andarono a vivere a Johannesburg e dal loro matrimonio nacquero sei figli: Elisabeth, Mary, Veronica, Lucy, Agnese e Tarcisio. Vent’anni dopo, nel 1967, quando i figli di Daniele e Domitilla erano grandi, ma ancora tutti in casa, Domitilla, assieme ad alcuni amici appartenenti alla Chiesa cattolica, alla Chiesa metodista anglicana ed alla Chiesa riformata olandese, diede vita ad un piccolo istituto per bambini handicappati mentali gravi. Lo scopo era quello di assistere questi bambini, spesso rifiutati anche dalla stessa famiglia e di dare anche un po’ di sollievo alle mamme di questi bambini, provate dalla fatica, dall’incomprensione e addirittura dal disprezzo della società.
Nel 1971, in pieno regime di apartheid, Domitilla appoggiata da suo marito e dalle sue figlie, ha osato sfidare le leggi che proibivano la convivenza tra bianchi e neri, ospitando a Little Eden (Piccolo Paradiso), una prima bambina di colore: Stephina. Ad ispirare ed a sorreggere questa donna, oltre che la sua famiglia, è stata la sua grande fede nella Madonna e nel Signore Gesù. Domitilla non esita a scrivere proprio agli inizi di questa sua straordinaria avventura, nel suo diario: “Nonostante la loro incapacità di pensare e di comunicare come facciamo noi, la mia esperienza mi dice che l’anima di questi ragazzi possiede lo stesso nostro desiderio di infinito. Anche in presenza di una mente e di una sensibilità ridotte, l’anima è intera”.

È molto bello vederli assieme.
Attualmente, Domitilla e Daniele si aggirano ormai sui novant’anni. Lui accarezza la mano a lei e lei lo guarda con due occhi di tenerezza e di amore. Ripete ad ogni momento che Daniele è tanto buono. “E’ sempre stato molto comprensivo e mi ha sempre appoggiato”. Non dice che è stato buono solo in passato. E’ stato buono e comprensivo e lo è tuttora. Basta vedere come lui guarda lei e come lei risponde silenziosamente con gli occhi e con il sorriso. Basta guardare il volto di Daniele per comprendere che la sua bontà non è una maschera di circostanza. Per questo uomo si può usare a proposito l’aggettivo “solare”. La luce del sole rende chiaro ogni angolo della casa; la bontà di Daniele di cui parla Domitilla, non è una qualità astratta: rende bella la vita e piacevole la vecchiaia. Domitilla ha sposato ed amato questo uomo con intensità e passione, ma ne è stata ricambiata. E’ difficile dire chi sia salito sul gradino più alto e chi abbia amato di più. Quando due bicchieri sono pieni non si possono fare paragoni e confronti perché la pienezza indica totalità.
I grandi progetti che nascevano e fiorivano nel cuore di Domitilla come i tulipani in primavera, sono sempre stati accolti e sostenuti da Daniele. Domitilla ha potuto fare e realizzare tutto quello che si può ammirare al “Little Eden ed al “Elvira Rota village” (le due Istituzioni nelle quali vi sono 300 ospiti) perché la Madonna stessa glielo chiese, ma anche perché il marito ed i suoi figli la sostennero appoggiandola. Ed ora che i genitori non sono più giovanissimi, le figlie ed i generi ed i nipoti portano avanti i suoi progetti di accoglienza e di amore, con grande passione e competenza.

Un villaggio d’amore con 296 ospiti e 220 assistenti
Gli ospiti del “Piccolo Paradiso” sono 180 e 116 sono coloro che vivono nel “Elvira Rota Villagge” cioè “al podere” come dicono gli addetti. Tre quarti degli ospiti non hanno alcuna capacità motoria e vivono su speciali carrozzelle. Devono essere imboccati, cambiati ed assistiti in tutto. Tutti sono incontinenti. Basti sapere che al Piccolo Eden funzionano tredici lavabiancheria industriali che lavano oltre 2500 pannolini al giorno e tutto quello che viene di conseguenza. Gli ospiti, contrariamente a quanto potremmo pensare, sono contenti; ridono e sorridono spesso. Non li ho mai visti piangere e poche volte li ho sentiti gridare. I bambini delle due strutture, o come li chiama Domitilla “I miei angeli”, distano circa venti chilometri l’una dall’altra. Gli ospiti sono organizzati e divisi in varie sezioni che si distinguono per il colore, con dodici, o quindici o venti persone per gruppo, a secondo della gravità dell’handicap degli stessi ospiti. Quelli particolarmente violenti o autolesionisti sono separati dagli altri. La loro aggressività viene controllata dalla presenza di personale specializzato.
Le cure con cui vengono assistiti gli ospiti di Edenvale e del Elvira Rota Village sono semplici quanto indispensabili. Gli ospiti partecipano ogni giorno a sedute di terapia del movimento, di fisioterapia, di musicoterapica, di riflessologia plantare ed una volta alla settimana, tutti trascorrono qualche ora nelle vasche dell’idromassaggio o cavalcando un docile cavallo che si adegua ai suoi piccoli ed indifesi ospiti. Nell’acqua i bambini trovano un ambiente rilassante che li aiuta a riacquistare la sensibilità del proprio corpo ed il rapporto con gli animali li fa sentire persone come tutti. Non si tralascia nulla che possa giovare a far star bene questi piccoli ed innocenti angeli. “Ma la cosa più importante soggiunge Lucy, una figlia di Domitilla che ha sostituito la madre nella direzione dell’Istituzione, è che, con queste terapie, i nostri bambini percepiscono che qualcuno si prende cura di loro e perciò si sentono amati”.
Scrive Domitilla nel suo diario quando ancora era all’inizio di questa avventura d’amore: “I bimbi ospiti delle nostre due Istituzioni hanno le anime luminose come il sole. Sono loro che ci insegnano l’amore. Sono angeli dalle ali dorate che illuminano le tenebre in cui è immerso il nostro cammino”.
Nel podere dove vivono 120 ospiti, bambini ed adulti, sono coltivate più di cinquecento piante di noci e di mandorle. Gli ospiti della casa, a secondo delle loro possibilità e guidati sempre da un educatore, passano ogni giorno dei momenti di tempo a dividere il frutto di queste piante dal guscio ed a impachettare i gherigli. Sotto la tutela di Peter, il marito di Agnese, una delle figlie di Domitilla, sono allevati un cavallo, alcune mucche, galline, oche, pecore, conigli, eccetera. Il tutto serve anche ad integrare la dieta degli ospiti. Ma la cosa particolarmente interessante è la intuizione che, sulla base delle singole capacità, ogni giorno lavorativo, i ragazzi di turno, sono preparati dagli assistenti a fare quanto possono fare. Dice Peter: “Una macchinetta automatica farebbe molto più presto e sarebbe più conveniente. Ma qui l’obiettivo è un altro: questi ragazzi coinvolti nella gestione dei lavori della casa, acquistano la consapevolezza di essere importanti e si sentono amati e questo li rende contenti”.

Domitilla e Daniele continuano ad essere due persone straordinarie
Dopo quanto è stato detto credo che non sia difficile farsi un’idea della famiglia di Daniele e Domitilla. Lei ha sempre lavorato con le mani e con il cuore; lui con le mani e con la testa. Il bello di questa famiglia è sicuramente nell’unione che hanno vissuto e che ancora li unisce. Domitilla, per prima, ha incominciato; ma Daniele l’ha seguita subito e l’ha sostenuta. E poi, a mano a mano che le figlie crescevano si sono sentite coinvolte. La mamma non poteva fare tutto ed il papà andava anche a lavorare per cui era necessario che qualcuno provvedesse e tenesse i rapporti con le autorità, con i fornitori dei vari generi necessari, con gli assistenti sociali, con le autorità politiche ed assistenziali. In tutto il South Africa, negli anni Sessanta, quando Domitilla ha incominciato a preoccuparsi dei bambini con questo tipo di handicap, non vi era una sola istituzione che accogliesse i disabili mentali; né per i piccoli, né per i grandi.
Non è stato facile perché tutto è partito da quota zero come succede nella costruzione dei villaggi turistici. Non c’era nulla e, in men che non si dica, sorgono molte abitazioni. Così è successo quando è nato “little Eden” e “L’Elvira Rota Village”. Ora c’è un’associazione, un’organizzazione, una gestione che fa invidia e molto ben gestita. Il segreto è semplice e tutti potrebbero adottarlo. Però è troppo semplice e nessuno crede che sia questa la ricetta giusta: Domitilla e Daniele sono persone di grande fede, anche se non hanno avuto nessuna esitazione nel coinvolgere altre persone di fede diversa. Fanno quello che possono , ma poi affidano il tutto alla Vergine Santa.

La cappella “Madonna degli Angeli”
venne costruita nel cortile del Little Eden ed è una prova di questa fede semplice e genuina. Domitilla insiste nel dire che la Vergine stessa le ha affidato questi piccoli angeli. Ogni volta che un sacerdote si rende disponibile viene celebrata la santa messa nella cappella ed i piccoli ospiti vi partecipano con devozione. Dice la stessa Domitilla: “E’ difficile credere. Ma ogni volta che questi miei angeli vengono accompagnati in cappella, si crea un silenzio ed un raccoglimento speciali quando i ragazzi si trovano davanti all’altare. E’ come se questi miei angeli sentissero la sacralità del momento e del luogo”.
E per non venire meno a questo ideale di preghiera e di dialogo che Domitilla ha portato avanti per tutta la vita, condiviso da Daniele e coltivato in famiglia, in casa, si recita ogni sera il Rosario. Ora che loro raggiungono la rispettabile soglia dei novant’anni e le figlie sono sposate ed i nipoti sono grandi, ogni martedì sera ci si riunisce in casa dei genitori o dei nonni e si cena assieme. E finita la cena, senza chiedere se tutti sono d’accordo, si prende in mano la corona e si recita il rosario. E se qualcuno arriva tardi, aspetta a servirsi la cena perché i venti minuti del rosario sono sacri e non si toccano. Veramente commovente!
Quasi leggesse nel mio cuore i pensieri che si accavallavano e si rincorrevano dentro di me, Domitilla, guardandomi fissa negli occhi mi dice: “Se la Vergine deve continuare a proteggere i miei angeli, dobbiamo anche invocarla; e pregarla! Ed affidare a lei i nostri piccoli-grandi problemi!”.
Interessante è anche la filosofia che Domitilla ha elaborato durante tutti questi anni, circa il dolore innocente dei “suoi angeli” e di quelli sparsi in tutto il mondo. Sarebbe bello elaborare questa tesi e fermarsi qualche volta a riflettere. Questi piccoli o grandi ospiti sono angeli, soltanto angeli. Il loro dolore ha un valore redentivo. Scrive padre David Maria Turoldo a proposito del dolore dell’uomo: “La risposta di Dio di fronte al dolore dell’uomo è Gesù. Il resto è silenzio”.
E Domitilla gli fa eco: “La Madonna e Gesù sono presenti nei corridoi del “Piccolo Paradiso”. Mi piace pensare che ogni sera si affianchino ad ogni lettino per baciare in fronte ciascuno di questi angioletti”.

Assunta Tagliaferri

Il buon samaritano


Molti cattolici, anche fra quelli addetti all’esaltato “progetto culturale” usano dimenticare il cattolicissimo poeta francese Paul Claudel (1868-1955). Alcuni anni fa al poeta della linea lombarda Giovanni Raboni, in un convegno romano, scappò detto che a chi gli chiedeva chi fosse il maggiore dei poeti francesi del Novecento non poteva che rispondere Paul Claudel, ahimè, come Charles Baudelaire additava Victor Hugo per l’Ottocento. Papa Ratzinger da giovane ha ben letto Claudel. Non per niente, qualche mese fa, pellegrinando verso Lourdes, ha ricordato pubblicamente in maniera particolare la conversione del giovane Claudel nella cattedrale di Notre-Dame de Paris, dove si verificò. Ma tant’è, in Italia per gli ammiratori Claudel resta solo il drammaturgo di“ L’Annonce faite à Marie” e per i detrattori il “gorilla cattolico” che tentò di convertire il venefico André Gide, e il fratello che lasciò recludere in un manicomio la sorella Camille, straordinaria scultrice, sedotta e abbandonata da Rodin.
Amo Claudel. Ne leggo assiduamente le poesie, i drammi, le prose e il “Journal”. Ne ho tradotto “Le Chemin de la Croix” che ho consegnato in anteprima al regista Mel Gibson che girava “The Passion” a Matera, l’“Hymne du Saint Sacrement” per un’ordinazione sacerdotale, e in questi giorni, “Le Bon Samaritain”, per l’anniversario dell’Atto costitutivo della Fondazione Lucana Antiusura. Proprio su questo testo voglio intrattenere i lettori. Trascorrono giorni in cui la crisi economica glocale, come ormai si dice, snida non poche persone dalle loro nicchie, e le trascina a moltiplicare solidarietà. Urge una nuova figura di buon Samaritano. Una completa riflessione teologica sulla parabola che lo celebra è reperibile nel libro su Cristo di Benedetto XVI. Ma il lettore non mancherà di apprezzare l’interpretazione di Paul Claudel pur segnata qua e là anche da qualche scatto ombroso.
Per lui il buon Samaritano è quell’opportunista che approfitta del fatto che siamo tramortiti per salvarci la vita. Si sa che non di rado gli uomini hanno più idiosincrasia che simpatia per i simili. Non sopportano in particolare chi si propone di fargli del bene. Io, nelle mani di un buon Samaritano? Ma va là. E così tutti, uno dopo l’altro, cavalchiamo spavaldamente, ostentando autosufficienza, sulla strada che va da Gerusalemme a Gerico. D’improvviso qualcosa non va laggiù: un grido, lo scarto d’un cavallo, un cavaliere atterrato. Eccolo lì su un mucchio di pietre, seminudo e malmenato con metodo. L’oltrepassa un sacerdote, abbassando gli occhi con modestia. Passa oltre il levita dall’acerbo cuore tremitante. Mentre il Samaritano, terzo a seguire, ne ha le viscere sconvolte.
Il poeta legge la figura del soccorritore immedesimandosi nel viandante soccorso. Ha proprio di fronte quello che il catechismo chiama il Nostro Prossimo. Il meglio di lui è che non articola chiacchiere. È un piacere per ambedue non conoscersi. Poi il poeta sposta l’attenzione sull’operosità benefica e sui pensieri vorticanti anche se muti del Samaritano. “Nelle sue mani il vino conserva tutto il suo vigore e l’olio è un sacramento di dolcezza.” Il ferito si riprende, può essere affidato a un albergatore. Lo curi, ecco il denaro per la convalescenza. Pazienza se gli mancherà per comprare la veste promessa alla moglie e rimborsare un creditore. Non c’è bisogno di fornire le generalità. Il beneficato restituirà a tutti gli altri uomini. Non secernerà odio contro il benefattore incognito. “Che cosa c’è di più innocuo di un beneficio quando siamo garantiti contro la riconoscenza?”.
Con brutalità intellettuale tutta francese, il poeta prende a riflettere su che cosa succede quando “per caso o per debolezza o per capriccio” rendiamo un servizio a qualcuno. Quanto imbarazzo, quanta recita consapevolmente insincera e contaminata nell’una e nell’altra posizione, quanto calcolo, quanta perdita di grazia umana! Possibile che non si possa essere più naturali? Ma prendi tutto ciò che ho, figlio mio, e non dirmi grazie. Un fiume esiste per dar da bere anche a un solo agnello. Un albero esiste per dar da mangiare a quel popolo di volatili che al suo riparo contendono e trangugiano i frutti con i nòccioli. Che c’è di più delizioso del micromondo fra noi e attorno a noi, che si nutre di noi, e che canta, e che ride, e che piange, e che confligge, e che, sicuro che gli apparteniamo, non si occupa più di noi, come non esistessimo?
Nella parte finale della composizione Paul Claudel sfodera una interpretazione personale della parabola. Chi è, si chiede, questo benefattore che si ripara dietro l’incognito? In realtà, risponde i benefattori sono due. Il primo è quello che ci ha assaltati, bramoso da ciò che abbiamo di più intimo, ci ha spogliati, ha messo in fuga il cavallo dell’orgoglio con cui formavamo una sola bestia, e ci ha aperto la mente con quattro legnate, rendendoci saggi e, nello stesso tempo, inermi. Poi è arrivato il secondo benefattore. “Ah! divino medico, sei tu! Io non ero proprio così morto come fingevo!” Il poeta gli chiede di porgli la mano sul cuore renitente, di guarirlo dalla vita, di sottrarlo con più severa chirurgia a vizi dimidiati, a un egoismo senza convinzione, ad abitudini senza passione, ai peccati in cui non comprende nemmeno ciò che gli è carpito e sottratto. Al divino Samaritano il poeta lancia una sfida: “Ah! dispiega pure tutte le simulazioni e le precauzioni che vuoi. Non mi coglierai di nuovo alla sprovvista, ora sto allerta! E mentre ti credi ben camuffato tu vedrai d’improvviso gli occhi di questo finto morto che piangono e ti guardano”.
Alla fine per Claudel il buon Samaritano è per eccellenza Gesù Cristo, come quasi ottanta anni dopo per Benedetto XVI nel libro su Cristo.
I cattolici, che non sono lettori-avvoltoi che divorano libri-carogne e ritengono con Kafka che i libri buoni colpiscono come un pugno e disordinano il pensiero abitudinario, devono riscoprire l’opera di Paul Claudel. Che è poeta luminoso, liturgico, appassionato, dalle leve creative possenti, sgradevole e acuminato, come si richiede in una stagione bisognosa di redenzione.

Basilio Gavazzeni

Il lungo dramma del Congo


I lanci delle agenzie di stampa sono ogni giorno più drammatici. Parlano di migliaia di sfollati, di una marea di persone che cerca scampo dai combattimenti. Parlano di profughi, di donne e bambini, vittime di epidemie, di malnutrizione, di violenza sessuale. Stiamo parlando del Nord del Kivu, regione nell’est della Repubblica Democratica del Congo e del nuovo e sanguinoso capitolo di un conflitto ribattezzato “la prima guerra mondiale africana” con un carico di cinque milioni di morti dal 1998 ad oggi. Il conflitto più sanguinoso dalla fine della seconda guerra mondiale. Ma quali sono le ragioni?
Una terra ricca e sfruttata
Dalla caduta di Mobutu nel 1997, l’ex Zaire, chiamato oggi Repubblica democratica del Congo (RDC) vive in uno stato di instabilità. Ricca di minerali e molto eterogenea sul piano demografico, la regione del Kivu è stata fortemente destabilizzata a seguito del genocidio del Ruanda, paese confinante, avvenuto nel 1994 ad opera degli hutu all’epoca al potere. Sconfitti militarmente e perseguitati dai ribelli tutsi di Paul Kagame, centinaia di migliaia di hutu fuggirono nel Congo del dittatore Mobutu. Nel 1996, per far cessare le continue incursioni degli hutu sconfinati, che partivano proprio dal territorio congolese, il nuovo regime di Kigali, ormai in mano tutsi, patrocina e aiuta gli oppositori al regime di Mobutu che fanno capo a Laurent-Désiré Kabila, che va al potere nel maggio 1997. Un anno dopo Kabila rompe con i suoi sostenitori ruandesi diventati, a suo dire, troppo invadenti e chiede aiuto all’Angola ricevendo il sostegno militare di altri paesi di questa tormentata regione. Preoccupano infatti gli appetiti di Ruanda e Uganda per le enormi ricchezze del Congo. La terra congolese diventa teatro di un conflitto che dura fino al 2002 quando viene firmato l’accordo di pace, sotto gli auspici dell’Africa del Sud. Pace che però non riguarderà la regione del Kivu.
A partire dal 2003, il Congo vive un periodo di transizione politica durante la quale i diversi gruppi ribelli che erano proliferati nel conflitto vengono progressivamente associati al potere. Per quanto nominato generale di brigata in seno al nuovo esercito congolese, l’ex capo ribelle Laurent Nkunda si rifiuta di sottomettersi al regime di Joseph Kabila, al potere dal 2001 dopo la morte del padre misteriosamente assassinato. Vicino ai ruandesi, il generale dichiara di non aver alcuna fiducia che il potere centrale possa proteggere la sua comunità di appartenenza, i congolesi di origine tutsi, dall’aggressione dei massacratori hutu ancora presenti nella regione. Su pressione internazionale nel gennaio 2008 Nkunda firma un accordo con Kinshasa che però salta dopo pochi mesi senza alcuna ragione apparente se non la sfiducia mai dissipata delle due parti in causa.
Si può parlare di un conflitto etnico o politico economico? è la giusta domanda da porsi. Arrivati in ondate successive in Congo nel corso di tutto il XIX secolo, i Tutsi che abitano nel Kivu continuano a essere considerati degli stranieri. Il genocidio avvenuto in Ruanda e il sanguinoso conflitto che ne è seguito nell’ex Zaire hanno moltiplicato le tensioni. Ma queste sono strumentalizzate sia dal governo di Kinshasa per rinforzare il suo potere sia da quello del Ruanda. Quest’ultimo ha sempre smentito di appoggiare i ribelli di Nkunda, ma gli stessi americani, che sono i principali alleati del Ruanda, hanno denunciato l’implicazione di Kigali nel conflitto attuale. Da dieci anni il potere di Paul Kagame ha come obiettivo quello di mantenere il controllo sul Kivu per ragioni di sicurezza alle frontiere, ma anche per continuare a sfruttare le ricchezze che si nascondono nel sottosuolo di questa sfortunata regione: oro, rame, coltan, petrolio. Al saccheggio di questa immensa fortuna naturale – che ha fatto dire ai vescovi congolesi che questa guerra è solo un “paravento” - partecipa anche l’Uganda. Guerra che mette a nudo, una volta di più, l’impotenza dell’Onu, presente con 17.000 caschi blu, a far rispettare gli accordi presi.

Cosa fare?
La Commissione Justitia e Pax degli Istituti missionari italiani ha redatto un documento sulla situazione del Congo ed ha elencato alcune proposte:
- Organizzare con urgenza l’azione umanitaria;
- Partire dagli accordi firmati tra le parti. Ci riferiamo in particolare agli accordi di Nairobi del novembre 2007 (disarmo dei gruppi armati dei profughi hutu rwandesi) e l’accordo firmato a Goma che dava vita al “Progetto Amani” per il disarmo di tutti i gruppi armati;
- Rafforzare la presenza delle Nazioni Unite;
- Garantire la trasparenza delle concessioni minerarie e di legname affinché siano bloccate le transazioni illegali;
- Arrivare ad accordi stabili per evitare sconfinamenti da parte dei paesi confinanti;
- Risolvere il problema della presenza nel Kivu dei profughi hutu rwandesi, distinguendo le responsabilità e non colpevolizzando l’intera comunità;
- Far rispettare la legalità internazionale attraverso l’esecuzione dei mandati di arresto emessi dalla Corte penale internazionale e la valutazione da parte della medesima corte se esistano gli estremi per emettere un mandato di arresto nei confronti di Laurent Nkunda e di altri combattenti;
- Instaurare un dialogo ad oltranza che ridoni fiato alla politica e blocchi ogni scorciatoia di violenza armata;
- Decidere una moratoria nella vendita di armi ai paesi della Regione, primi fra tutti la Repubblica Democratica del Congo, il Ruanda e l’Uganda;
- Sostenere gli sforzi della società civile organizzata affinché possa svilupparsi sempre più il processo di riconciliazione.
Facciamo appello - termina il documento - all’Italia, che è membro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, perché svolga un ruolo attivo in quella sede e all’Europa, che ha in gran parte finanziato il processo elettorale, affinché vengano rispettati i diritti delle persone, sviluppata la democrazia, fermata ogni aggressione armata e finalmente raggiunta la pace.

Daniele Rocchetti

Rivista "L'Apostolo di Maria" di gennaio 2009


Una chiesa universale

di Paolo Andreoletti

“Sempre più radicati in Cristo, i cristiani devono sforzarsi di vincere ogni tendenza a chiudersi in se stessi e imparare a discernere l’opera di Dio nelle persone di altre culture. Ma solo l’autentico amore evangelico potrà essere talmente forte da aiutare le comunità a passare dalla mera tolleranza verso gli altri al rispetto autentico delle loro diversità. Solo la grazia redentrice di Cristo può renderci vittoriosi nella sfida quotidiana di passare dall’egoismo all’altruismo, dalla paura all’apertura, dal rifiuto alla solidarietà”.

Questo breve richiamo al messaggio di Giovanni Paolo II, redatto in occasione dell’89ª giornata mondiale del migrante e del rifugiato celebratasi nel 2003, ci introduce bene nel nuovo anno, il 2009, e ci introduce bene nello speciale di questo numero che ha come tema la vocazione universale della chiesa.
La Chiesa Cattolica è per sua natura “Universale”, è questo il significato del termine “cattolico” dal greco: katholikòs, cioé “universale”. La chiesa è una, santa, cattolica e apostolica, così recita il credo che ogni domenica professiamo durante la celebrazione eucaristica. Ma questa dimensione universale della chiesa è anche il punto dolente su cui è importante soffermarsi a riflettere.
Gesù poco prima di salire al cielo, una volta conclusa la sua missione come uomo in mezzo agli uomini, ha affidato agli apostoli, e attraverso di essi a tutta la chiesa, la missione di andare in tutto il mondo per annunciare ad ogni creatura la buona novella. Questa missione la Chiesa non l’ha mai dimenticata. Pensiamo solamente a tutti i missionari anche laici che sono partiti per ogni angolo della terra fedeli a questo comando di Cristo. La missione Ad Gentes c’è ancora oggi, non è finita, ci sono ancora dei missionari che partono per la missione, ma a questa forma di evangelizzazione se ne è affiancata un’altra. Oggi capita che sia il mondo che viene a noi e noi siamo i missionari di Cristo. I nostri paesi e le nostre città sono sempre più popolati da quella che potremmo definire la nuova “Galilea delle genti”. Uomini e donne di ogni cultura e regione di questo mondo, e in modo particolare delle regioni più povere di questo mondo, non bussano alla nostra porta ma semplicemente entrano e portano con sè la propria fede.
Di fronte a questa nuova realtà due possono essere gli atteggiamenti: aprirsi a questo nuovo multiverso culturale e religioso, oppure chiudersi in se stessi. Non è questa una scelta facile. Scegliere di conoscere la nuova realtà che ci circonda, richiede lo sforzo di vincere le proprie paure e di approfondire la nostra scelta di fede, per evitare di essere impreparati nell’incontro con l’altro. Forse potremmo cercare di cogliere l’occasione che ci viene offerta, una occasione, insita in ogni nuovo incontro, di arricchire e di arricchirsi, di donare e di ricevere e di crescere.
Se non altro sentiamoci almeno missionari di Gesù e della sua parola a casa nostra.

Missione nella parrocchia della Beata Vergine Maria di Lourdes


Domenica 26 Ottobre si è conclusa la missione al popolo che si è tenuta nella parrocchia dedicata alla Beata Vergine Maria di Lourdes ed a Santa Maria Goretti, guidata dai missionari Monfortani: P. Ivo, P. Giovanni, P. Eugenio e Suor Venera.
Tutto è cominciato mercoledì 15. All’inizio della missione, il Vicario Generale, a nome del Vescovo, ha consegnato ai missionari i crocefissi e il testo della parola di Dio, strumenti indispensabili nella visita alle famiglie. L’incontro con la gente della comunità: giovani e meno giovani, è stata una occasione per ascoltare e per capire le difficoltà in cui molti vivono. Certamente questo incontro ha portato un grande conforto a chi è nel dolore, come pure di grande conforto è stato l’ascolto della parola di Dio. Momenti di gioia quindi che hanno trovato nelle varie celebrazioni liturgiche un luogo ideale di espressione. Particolarmente significativa, proprio in una di queste celebrazioni, è stata la consegna, o forse meglio il dono di una immagine di Maria. L’icone di Maria è stata portata davanti all’altare affinchè tutti potessero vederla e attraverso di essa sentire la presenza della Madre di Dio in mezzo al suo popolo.
Maria è stata la protagonista della Missione perchè Maria riesce a conquistare il cuore del cristiano, ma attraverso di lei Cristo entra nella vita del fedele. Non a caso il tema della missione era: “Maria viene per donarci il suo figlio Gesù, Salvatore”.
Questo vero significato della missione è stato celebrato venerdì 17 nella santa messa nella quale è stato presentato un crocefisso; prima Maria che apre la strada e poi Gesù che entra e salva la vita del cristiano. È stato bello vedere la comunità toccare il crocefisso. Toccare la testa quasi a voler indicare il desiderio di cambiare modo di pensare. Toccare le mani per mettere le proprie a servizio di Cristo. Toccare la bocca per cominciare a dire parole buone. Il Sabato seguente la comunità ha vissuto il grandissimo pellegrinaggio verso il Crocefisso di San Domenico. Nei segni dell’acqua, del fuoco e della Parola, incontrati e meditati nel cammino insieme, abbiamo raggiunto il santuario e li si è celebrata la rinnovazione delle promesse Battesimali.
Nel cammino della missione si è dedicato uno spazio anche al tema delle vocazioni. La vocazione sacerdotale o alla vita consacrata trova forza e vigore solo nell’eucaristia, questo abbiamo capito e questo ci ha spiegato il Vescovo che ha presieduto la celebrazione eucaristica in cui erano presenti tanti sacerdoti, tante suore e l’intera comunità del seminario, animata dalla corale parrocchiale.
E non poteva certo mancare uno spazio dedicato alle famiglie. Sabato 25 tante famiglie hanno potuto rinnovare le loro promesse matrimoniali. Alla sera una grande festa animata dal gruppo dei “Cuori Naviganti”, giovani venuti da Foggia, ha chiuso la giornata. La domenica seguente la missione si è chiusa.
Ho avvertito chiaramente la gratitudine della gente verso i missionari e dei missionari verso la gente e Don Mario con le suore. La commozione della gente è stato il segno che la missione ha lasciato qualcosa dentro.
Ringraziamo i missionari Monfortani per quello che ci hanno lasciato, Don Mario per l’idea della missione, e tutte le persone che hanno collaborato. Grazie!

venerdì 13 giugno 2008


Pellegrinaggio a Lourdes 16-19 maggio 2008


Pellegrinaggio in Terra Santa dal 3 al 10 aprile

sabato 31 maggio 2008

Missione di Cagliari




Sull’aereo in partenza da Cagliari, guardando dal finestrino cercavo di scorgere la parrocchia di S. Pietro, presso la quale avevo svolto la missione cittadina. Per un bergamasco “doc” come il sottoscritto non sempre è facile lasciarsi coinvolgere emotivamente, ma era impossibile trattenere le lacrime che mi rigavano il volto. Diversi anni fa avevo in programma di recarmi proprio a Cagliari, durante l’estate, per far visita a mia zia suora che fino al 2002 vi aveva svolto il suo servizio di infermiera nella clinica S. Antonio. Mi aveva incuriosito il fatto che entrambi le mie due zie suore, quasi in contemporanea, avessero trascorso in Sardegna gli anni giovanili della loro consacrazione religiosa e avessero sempre conservato un bel ricordo e tanta nostalgia. Purtroppo quel viaggio non si fece, perché proprio mentre mi accingevo ad organizzare la mia vacanza, mia zia suora mi telefonò che era in partenza: era stata infatti trasferita alla comunità di Bergamo. Rimasi così col rimpianto di non vedere i luoghi e la gente di cui spesso mi avevano raccontato, e con la speranza che forse ci sarebbe stata un’altra occasione. Per questo, quando p. Eugenio Perico e p. Angelo Epis, mi proposero di partecipare alla missione cittadina di Cagliari, non esitai. In un secondo momento quando si cominciò ad organizzarci e a prepararci alla missione, subentrò in me un po’ di preoccupazione. Erano infatti diversi anni che non partecipavo ad una missione popolare, mi domandavo quale sarebbe stata l’accoglienza del parroco e della gente. Provavo ad immaginare i volti e i luoghi, l’intenso programma delle giornate e il viaggio che mi aspettava.
Nel primo pomeriggio del 18 gennaio, con p. Angelo Epis. Raggiungemmo Cagliari verso le 11,00 del giorno seguente. Subito fui accompagnato da p. Angelo alla parrocchia di S. Pietro, nel quartiere di Pirri. Arrivati davanti alla chiesa parrocchiale incontrammo il parroco don Ignazio. Dopo le presentazioni e i saluti e dopo aver fatto visita alla bella chiesa, don Ignazio mi accompagnò presso la famiglia che, in quei giorni di missione, mi avrebbe ospitato: i signori Mimma e Giorgio, simpaticissimi coniugi sessantenni. Mi aprirono la porta della loro casa con tanta semplicità e gioia… Potrei continuare così raccontandovi di come si svolsero tutte le giornate della mia permanenza e della missione a Cagliari, tanti infatti sono stati i momenti belli che ricordo. L’impegno è stato intenso, la stanchezza l’ho sentita solo quando sono tornato nella mia comunità di Treviglio.
Con me nella parrocchia di S. Pietro c’erano altri quattro missionari tutti della famiglia monfortana; due Figlie della Sapienza: suor Maria e Suor Anna, una missionaria di Maria: Rosalba Biella, e un’altro missionario monfortano: p. Eugenio Minori. Ci siamo trovati davvero bene, la collaborazione e l’intesa non è mai mancata. Il parroco don Ignazio è stato di un’accoglienza e di un calore veramente fraterno; ci ha fatti sentire subito a casa, anche se tutti e cinque venivamo dal continente! La gente della parrocchia dai più piccoli ai più grandi ci ha dimostrato da subito grande affetto e soprattutto la gioia di avere in mezzo a loro dei missionari. Nelle due settimane trascorse a Cagliari; ogni giorno al pranzo, che veniva servito in un salone dell’Oratorio, abbiamo avuto modo di assaggiare tantissime specialità della cucina sarda. Infatti le brave signore della parrocchia, a turno preparavano il pranzo. Anche questi erano i segni di una ospitalità vera e calorosa.
Ogni mattino dopo le Lodi Mattutine e la Santa Messa, don Ignazio ci consegnava l’elenco delle vie della Parrocchia che orientativamente avremmo dovuto visitare in quella giornata. La visita alle famiglie è stata per me l’esperienza più toccante. Inizialmente ero un po’ timoroso a suonare i campanelli delle case, poi la paura è stata vinta dagli incontri con le persone. Dopo un primo momento di conoscenza e di qualche parola sul significato della missione cittadina e della visita del missionario, le persone spesso aprivano il loro cuore. A volte uscendo da alcune case, mi sembrava quasi che la visita del missionario era aspettata da tempo; come qualcosa a lungo desiderata. Spesso, anche con chi all’inizio sembrava diffidente e chiuso, c’è stata una condivisione sorprendente di quanto fa parte della propria vita, delle gioie e dei dolori della propria famiglia, le preoccupazioni e le speranze riposte nei figli, delle esperienze legate alla comunità cristiana. Mi stupiva il fatto che la gente, pur non conoscendomi, ma solo per il fatto di essere “il missionario”, mi riteneva degno di fiducia e di tanta stima. Non ricordo di aver dato molte risposte, talvolta mi sono limitato quasi solamente ad ascoltare, ma alla fine i ringraziamenti non finivano mai e in diversi casi l’ultima parola era: padre preghi per me e per la mia famiglia!
Forse noi missionari, con il passare del tempo ci dimenticheremo di quasi tutti i volti che abbiamo incontrato, ma sicuramente non sarà così per molti di quegli uomini e donne che hanno incontrato il missionario. Hanno visto in noi la presenza del Signore, e non per le nostre capacità, o per le nostre virtù. Qui sta la bellezza e la grandezza della nostra missione! Dio si serve ancora di noi, poveri e fragili vasi d’argilla, per portare la Parola di salvezza e di speranza agli uomini e alle donne del nostro tempo.
Su quell’aereo che mi portava a Roma per celebrare un matrimonio di due giovani che avevo visto crescere in Oratorio, è nata in me spontanea una preghiera di lode al Signore per avermi dato la possibilità di partecipare alla missione di Cagliari. Ancora una volta avevo toccato con mano che il Signore si manifesta e ci fa crescere attraverso l’incontro gratuito generoso della nostra umanità, un umanità spesso ferita e ammalata, ma che rimane pur sempre sacramento della sua presenza.

Gianangelo Maffioletti