venerdì 6 febbraio 2009

Foto defunti marzo 2009

Pellegrinaggi 2009


Elenco generale pellegrinaggi 2009

Foto di gruppo 2008


Festa delle Zelatrici 2008

Desiderare la Sapienza


Padre Alfio Mandelli

Se Gesù è pienezza di ogni bene, la risposta non può essere che desiderare l’incontro con Lui. L’uomo desiderato, si scopre desiderante! Quando sperimenta di essere oggetto di benevolenza, si apre all’amore. Quando si riconosce oggetto di desiderio, esce fuori da sé nel desiderio dell’altro.
Luigi da Montfort pensa la vita spirituale come un viaggio verso la Sapienza che si offre «unicamente a coloro che la desiderano e la cercano con ardore pari al suo grande merito» (AES 30). Dice ancora Luigi Maria: «Bisogna essere come Salomone e Daniele, uomini di desiderio, per ottenere questo grande tesoro della Sapienza» (AES 183).
Cosa vuol dire essere «uomini di desiderio»? Troviamo una luce nel libro di Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Approfondendo il senso della beatitudine di coloro che hanno fame e sete della giustizia, Benedetto XVI spiega che gli uomini di desiderio sono «persone che non si accontentano della realtà esistente e non soffocano l’inquietudine del cuore, quell’inquietudine che rimanda l’uomo a qualcosa di più grande e lo spinge a intraprendere un cammino interiore» (p.116). Sono persone che non hanno avuto il cuore rivolto verso la terra, ripiegato unicamente su orizzonti umani, come Zaccaria, Elisabetta, Maria, Giuseppe, i Magi, Simeone, Anna che hanno sempre desiderato e cercato un Salvatore… come gli Apostoli che hanno conservato il cuore aperto alla chiamata di Chi è più grande… come san Paolo.
Comprendiamo così l’accorato appello del Montfort: «Fino a quando, figli degli uomini, avrete il cuore duro e rivolto verso la terra? Fino a quando amerete la vanità e cercherete la menzogna? perché non volgete i vostri occhi ed i vostri cuori verso la divina Sapienza?» (AES 181).
Non tutti accettano di essere desiderati e quindi di desiderare! Il peccato, in fondo, è il rifiuto del desiderio di Gesù. La dannazione è non accettare di essere desiderati da Lui. Il paradiso è accettare di essere desiderati dal Signore per amarlo! Ma per desiderare e cercare, bisogna prima, con atto di profonda umiltà, ammettere la propria povertà. Quando l’uomo riesce a spezzare la barriera dell’orgoglio che tiene schiavo il suo cuore, quando accetta di fidarsi di Cristo, di rischiare la sua vita entrando nel dinamismo dell’amore di Dio, allora è pronto a partire per un viaggio meraviglioso. Chiede di passare attraverso i medesimi desideri di Dio, tra i quali vi è la Vergine Maria: lei ha rapito Dio e lo ha fatto discendere. Si tratta di trovare veramente Maria e il suo desiderio: essere «nulla». È incomprensibile per noi ma deve divenire il nostro vero desiderio: come Maria, desiderare di essere per «Dio Solo», perché Dio è per noi. Desiderare di essere un nulla, un fondo di nulla, ma un niente amato da Dio.

Siamo di Gesù e di Maria


di Padre Abramo Belotti

La prima verità fondamentale ci ha occupato a lungo, con i suoi tre momenti: professione di fede in Cristo Salvatore; sguardo sull’accoglienza perplessa della devozione mariana del tempo, sotto forma di confidenziale lamento; infine una fervida preghiera di provenienza agostiniana, da recitare ogni giorno.

A margine della prima verità.
Nel testo originario la preghiera è in latino. Il Montfort annota: “perché le persone che capiscono il latino la recitino tutti i giorni per domandare l’amore di Gesù che noi cerchiamo per mezzo della divina Maria”. Viene facile ricavare alcune indicazioni interessanti. La prima riguarda gli eventuali destinatari della sua opera. Tra i suoi lettori prevede anche chi sappia di latino: non solo le persone semplici, prive di istruzione. Non teme quindi che il suo scritto cada sotto il giudizio severo dei “dotti”. Ancora più intrigante appare la finalità di questa preghiera. All’inizio scrive: “Per ottenere dalla tua misericordia una vera devozione verso la tua santa Madre e poterla diffondere su tutta la terra, fa che io ti ami ardente-mente...
Dopo la trascrizione della supplica di san Agostino aggiunge di averla proposta “per domandare l’amore di Gesù che noi cerchiamo per mezzo della divina Maria”.
Pare di assistere alla descrizione di un esemplare circolo virtuoso: la vera devozione e la capacità di diffonderla dovunque sono dono della misericordia di Gesù, conseguenza di un amore ardente verso di Lui; e l’amore di Gesù è cercato per mezzo della divina Maria”. Sono due dunque i movimenti: da Gesù a Maria e da Maria a Gesù; movimenti non alternativi, ma complementari. Non sono nemmeno da porsi sullo stesso piano, perché dal primo scaturisce il secondo. Alla base infatti sta l’iniziativa di Dio con il mistero del Verbo Incarnato. La familiarità e una più ricca comprensione del mistero dell’Incarnazione ci conducono a Maria. Ella a sua volta ci guida a condividere i suoi stessi sentimenti verso il Figlio suo.

Apparteniamo a Gesù e Maria
Ho ritenuto utile aggiungere queste brevi annotazioni prima di misurarci con la seconda verità fondamentale che trova questa sintesi sbrigativa nei titoli usati da diversi editori: apparteniamo a Gesù e a Maria come schiavi. Il Montfort vi dedica dieci numero del Trattato dal numero 68 al numero 77 compreso. Risulta evidente la divisione in tre parti. La prima parte è cristologica; la seconda, inglobata nella prima, definisce i termini servo e schiavo; infine la terza parte espone le conseguenze mariane.
Un rilievo preliminare si impone da sé: se la prima verità trova una facile adesione, senza nessuna riserva, la stessa cosa non la si può ripetere per questa seconda verità e per le altre che seguiranno. Man mano che ci si allontana dal nucleo luminoso e solido della prima verità, la penombra avanza ed è richiesta un’analisi più attenta.
La prima parte della seconda verità, quella cristologica, si presenta come una naturale conclusione della precedente. Così la pensa il Montfort: “Da ciò che Gesù Cristo è nei nostri confronti, bisogna concludere con l’Apostolo che noi non apparteniamo più a noi stessi, ma totalmente a Lui, come sue membra e come suoi schiavi...” (VD 68).
“Noi non apparteniamo più a noi stessi, ma totalmente a Lui”: questa è l’affermazione centrale e si fonda esplicitamente sull’apostolo Paolo. La nostra relazione con Gesù Cristo così viene presentata: siamo sue membra, suoi schiavi comprati a caro prezzo, con tutto il suo sangue. Il Montfort attinge ad una tradizione che trova la sua origine nel Nuovo Testamento. Sarà necessario afferrare l’aspetto essenziale e sempre valido per non dar luogo ad equivoci. La medesima operazione del resto è stata compiuta dal Montfort che dedica vari numeri per precisare la portata dei termini schiavo e servo. Lo faremo in seguito. Viene menzionato il battesimo che capovolge la condizione umana: da schiavi del diavolo a schiavi di Cristo.

Operosità necessaria
Il rapporto dei fedeli con Gesù viene ulteriormente illustrato con immagini e simboli ricavati da passi evangelici molto conosciuti: siamo tralci di una vite il cui ceppo è Cristo; un gregge il cui pastore è Cristo; terra fertile nella quale viene gettato il seme. La prima immagine, quella degli “alberi piantati lungo le acque della grazia” attraversa in qualche modo tutta la Bibbia: sta all’inizio del libro dei salmi, viene ripreso dai profeti e trova spazio anche nell’Apocalisse. Ogni impiego aggiunge un proprio tocco.
Il Montfort sottolinea con forza l’obbligo di portare frutti. L’indicazione è implicita anche nel testo evangelico. Qui è evidenziata con forza: gli alberi piantati lungo i corsi d’acqua “devono portare frutto a suo tempo”; i tralci “devono produrre buona uva”; il gregge “deve moltiplicarsi e dare latte”. Nel simbolo della terra fertile rispetta il testo evangelico: costata il dato di fatto e non aggiunge la nota del “dovere produrre”. Nota però che viene ripresa citando altri due passi del vangelo: la maledizione del fico sterile e la condanna del servo inetto che sotterra, invece di far fruttificare, il talento ricevuto. L’operosità viene percepita come un assillo che non ti concede requie. È ansia ossessiva? No, è il dinamismo proprio dell’amore: “creati in Gesù Cristo per le buone opere” dobbiamo servirlo come schiavi d’amore.
Di tutto si potrà rimproverare il Montfort nella proposta della sua devozione mariana; ma non certo di aver favorito uno sterile intimismo.

Sulle mie labbra sempre la tua lode


di Padre Valentino Bosco

La lode è la forma di preghiera più presente nella Bibbia: è la risposta riconoscente che l’ebreo dà alla benedizione divina. La lode nasce dallo stupore e dall’ammirazione in presenza di Dio. Dovendo essere normalmente intelligibile alla comunità nel suo sviluppo la lode diventa facilmente canto, cantico, inno, musica, danza. La lode appare per lo più legata alla liturgia della sinagoga e ancor più del tempio dove, col passar del tempo, diverrà sempre più strutturata. La partecipazione del popolo è viva e gioiosa, specialmente nelle feste annuali e nei momenti costitutivi della storia di Israele. I salmi, molti dei quali nati per uso liturgico, sono i più usati nella preghiera ebraica. Anche in ambito cristiano la lode troverà ampio spazio. Testi neotestamentari, assieme ad altri dell’era postapostolica, quando descrivono le liturgie cristiane, danno molto rilievo al rendimento di grazie, presente in maniera insistente nella componete eucologica dei formulari celebrativi. Non a caso la massima celebrazione della Chiesa, la Santa Messa, è chiamata “Eucaristia”, che vuol dire “rendimento di grazie”.

Nella vostra assemblea c’è una che non conoscete
In questa premessa biblica, collochiamo il nuovo tema mariano. Entriamo nella sinagoga di Nazaret e osserviamo ciò che avviene tra i convocati alla preghiera. Tra di loro, all’interno dei vari passaggi rituali, si sviluppa un tripudio di esultanza che ‘prende’ persone e assemblea. La ristrettezza dello spazio ci permette di scorgere facilmente e osservare con attenzione la presenza di una fanciulla: il suo nome è Maria. È una praticante fedele e devota. Esternamente poco o niente la distingue dagli altri partecipanti, se non quello slancio intenso e interiorizzato, pur fisicamente contenuto e senza esibizioni, dal quale si lascia pervadere tutta. Una lode totalmente gratuita, quella di Maria, che le arriva alle labbra da un cuore che vuole solamente dire all’Altissimo amore e adorazione. Il suo rendimento di grazie appare libero da ogni interesse personale, nè viene adottato come espediente per accappararsi la simpatia e i favori divini. Maria sa bene che il Dio della Bibbia non sta a questi intrecci che sanno di mercato sacro. Egli è un Dio gratuito e non ha motivi per questuare lodi.
Allo sguardo degli uomini, solitamente attratti dalle estetiche dei corpi e scarsamente in grado di cogliere le ricchezze interiori delle persone, quella compaesana è un’orante ordinaria. Anche i dotti non vedono oltre. Sono guide cieche, incapaci di cogliere la presenza della perla preziosa.

Il quotidiano spazio celebrativo

Per natura sua la lode ebraica è storica, nel senso che ha come motivi per sprigionarsi i prodigi disseminati lungo tutta la storia biblica, specialmente i ‘mirabilia’ fondanti della loro fede, tipo la librazione dalla schiavitù d’Egitto, il passaggio del mare dei giunchi, l’entrata nella terra promessa. La lode ebraica è vissuta come un ‘memoriale’ delle meraviglie operate da Dio. I prodigi del Signore permangono vivi e freschi nel cuore della storia di Israele, in attesa di essere richiamati a riproporsi in mezzo alle assemblee.
Ma una semplice reminiscenza storica, anche se proclamata nel rispetto di tutti i cerimoniali, non è in grado di riattualizzare le meraviglie toccate ai Padri. Non così avveniva a Maria, alla quale il contatto vitale con il mistero salvifico che i vari memoriali proponevano, riusciva sempre perfetto. Dopo aver attraversato tutta la storia precedente, l’evento celebrato la raggiungeva, fresco e vigoroso, generando un’abbondanza di ‘berakah’ (rendimento di grazie). Questi rendimenti di grazie potevano essere di grande portata come il ‘Magnficat’, nel quale la Vergine Maria esulta nello spirito per la meraviglia delle meraviglie che le è stata concessa da Dio, la maternità divina. Più sovente invece la lode era di portata modesta, legata al vivere quotidiano. A sprigionate l’alleluia potevano essere un’esperienza di grazia, una lettura biblica, un gesto di carità, la bellezza di un tramonto, l’esplodere della primavera, lo sbocciare di un fiore. Ponendosi come prolungamento delle celebrazioni sacre che avvenivano al tempio, il quotidiano di Maria diventava uno spazio liturgico, dove a celebrarsi era la sua vita concreta. Una liturgia esistenziale indispensabile. Alle celebrazioni dei memoriali previste dal calendario, Maria non si presentava mai a mani vuote, portava con sé cesti di frutti freschi, appena colti dall’albero dei suoi vissuti giornalieri. Mai ripetitive, le sue partecipazioni erano sempre al passo con i voleri di Dio.

Il suo cantico della creature

Dentro agli ‘hillel’ (lodare) mariani passava anche il canto del creato, del quale ancora una volta i salmi erano testimonianza palpitante. Membro di un popolo che aveva alla sue spalle una storia da nomade, in buona parte ancora dedito alla pastorizia e alla coltivazione dei campi, a contatto costante con la terra e il cielo, Maria gustava le bellezze e le ricchezze del creato. In merito della grazia originale di cui godeva per privilegio divino, Maria rientrava così nel Paradiso perduto. Si sentiva nuovamente parte viva del creato, rievocando lo stupore dei progenitori, facendo riecheggiare nell’intimo il loro grido di gioia e di lode, fruendo con riconoscenza dei frutti della terra e dei benefici del cielo. Godette di quel ‘tutto era buono’ con cui Dio consacrò il creato, facendone dono ai progenitori. L’unica a sviluppare rapporti innocenti con il creato fu Maria, perché lei stessa nata innocente. Vedendo riflesso nella natura la bellezza del Creatore e la provvidenza del Padre, come non poteva non lodare l’Altissimo, facendosi voce di ogni creatura? Anche Maria ha elaborato il suo ‘cantico delle creature’. Quanto mi piace quella Vergine della visitazione: sollecita nel passo, dal volto gioioso, con le mani aperte verso l’alto, lo sguardo leggermente rivolto al cielo e le labbra aperte a significare la lode che le sale dal cuore. Una con il creato Maria canta le meraviglie del Signore: “Jahvè, mio Dio, tu sei grande, rivestito di maestà e grandezza” (Sal 96,3).

Rallegrati piena di grazia


di Padre Alberto Valentini

La prima osservazione che si impone a proposito del brano dell’Annunciazione è che si tratta di un testo cristologico: tutto in esso è finalizzato al mistero di Gesù figlio di Davide e Figlio di Dio. Solo in questa luce, c’è spazio per la figura di Maria e per una riflessione su di lei. Per conseguenza quelle letture che insistono unilateralmente sul genere di vocazione, di missione o altro, con riferimento quasi esclusivo alla figura di Maria, non si pongono in una prospettiva felice per la comprensione globale del testo.

1. Il contesto
L’intera pericope è messa attraverso la figura dell’angelo sotto il segno di una missione da parte di Dio e di un ritorno a Lui. La Parola uscita dalla sua bocca non torna indietro senza aver compiuto ciò per cui è stata inviata (cf. Is 55,11). Il punto di riferimento della missione dell’angelo è la Vergine di Nazaret, alla quale è destinato l’annuncio.
L’angelo Gabriele nell’AT è presentato in rapporto al compimento delle promesse messianiche (cf. Dn 9,21-27), che nella pienezza dei tempi si realizzeranno in maniera piena e definitiva. L’annuncio a Maria è presentato in maniera totalmente diversa rispetto al precedente annuncio fatto a Zaccaria: non avviene nel santuario, neppure in Gerusalemme o in Giudea, ma in una terra di confine, semipagana e deprezzata (cf. Gv 7,41.52), nella “Galilea delle genti”, tra un «popolo che camminava nelle tenebre...» (cf. Mt 4,12-16; Is 9,1); non si svolge in un capoluogo o città illustre, ma nell’oscuro villaggio di Nazaret (cf. Gv 1,46), che l’Antico Testamento neppure menziona. L’angelo non appare a un sacerdote anziano e neppure a un uomo, ma a una donna, anzi a una sconosciuta fanciulla, vergine, in condizione di radicale povertà. Il capovolgimento di logica è tipico di Luca, l’evangelista dei poveri, sottolineato con in insistenza ed originalità, come nel cantico della Vergine (cf. 1,48.52-53).
A differenza di Zaccaria nel caso di Maria si mette in luce - insieme con la “laicità femminile” e la marginalità, non solo geografica - la freschezza della condizione verginale, aperta alle misteriose potenzialità dello Spirito (cf. Lc 1,27.35). In lei si manifesta in maniera tipica la povertà della condizione umana e l’esuberante potenza della grazia di Dio. Il ponte che collega le opposte sponde della sua povertà e delle grandi cose operate in lei dal Signore (cf. Lc 1,48-49) , è costituito dal casato davidico - cui appartiene Giuseppe suo sposo (cf. Lc 1,27) - dal quale sorgerà il Messia d’Israele. Tutto poggia, dal punto di vista umano, sulla dinastia di Davide secondo la promessa (cf. Lc 1,32-33; 2 Sam 7,12s.16) ; ma il compimento supererà ampiamente gli annunci messianici e le speranze d’Israele (cf. Lc 1,35).

2. Il saluto dell’angelo
Gabriele si manifesta a Zaccaria come messaggero di liete notizie (1,19): gli annuncia la nascita di un figlio che procurerà gioia e allegrezza a lui e a molti (cf. 1,14). Su tale sfondo, in maniera parallela, la prima parola (Lc 1,28) rivolta alla vergine Maria: “rallegrati!” (chaire), non può essere un semplice saluto, ma un pressante invito alla gioia. Lo stesso messaggio gioioso risuona nell’annuncio ai pastori (2,11), nella lode della schiera celeste (2,13), nelle voci festanti di coloro che hanno «visto e udito» (Lc 2,20). L’esultanza per la salvezza di Cristo pervade l’opera lucana ed esplode nel vangelo dell’infanzia (cf. Lc 1,46s.68; 2,11.13.20).
Il parallelismo più diretto per il nostro testo è da ricercare nell’annunciazione ai pastori, ai quali l’angelo comunica una grande gioia (Lc 2,10). L’oggetto del messaggio, dal quale scaturisce l’incontenibile esultanza per tutto il popolo, è il medesimo dell’annunciazione: la nascita del Messia davidico, di Cristo Signore (cf. Lc 2,11).
La nota gioiosa è suggerita anche dallo sfondo veterotestamentario delle parole rivolte a Maria, che echeggiano gli annunci concernenti la figlia di Sion (Sof 3,14-17; Zc 9,9; Gl 2,21): la figlia di Sion non è più un simbolo o una personificazione del popolo, ma assume il volto concreto della Vergine di Nazaret.
Al saluto gioioso segue l’appellativo “piena di grazia” (kecharitōménē): un nome nuovo, che designa la personalità della Vergine davanti a Dio e di fronte al mondo. È il primo appellativo attribuito alla Vergine, alla luce del quale devono essere intesi e spiegati quelli che seguono. È un verbo raro ma prezioso, derivante da cháris, che indica il favore del re (1Sam 16,22; 2Sam 14,22;16,4; 1Re 11,19; Est 2,17) ed anche l’affetto dell’Amato (Ct 8,10). Il titolo kecharitōménē viene commentato dalle parole seguenti dell’angelo: « ... hai trovato grazia (chárin) davanti a Dio» (v. 30). Si tratta della benevolenza divina in vista della missione da compiere, che incide profondamente sulla persona cui tale benevolenza è destinata.
Il saluto è da intendere secondo il genere letterario degli annunci, come quello rivolto a Gedeone: «Il Signore è con te, eroe valoroso...; va’ con questa tua forza e salva Israele» (Gdc 6,12.14). Il titolo di “piena di grazia” (kecharitōménē) anticipa il contenuto del messaggio e prepara la Vergine alla missione di madre del Messia davidico e Figlio di Dio. «Il Signore è con te», espressione della teologia dell’alleanza, garantisce la presenza e la protezione del Signore, senza la quale la missione risulterebbe del tutto impossibile.

Investire nell'educazione


di Padre Luigi Fratus

Fin da quando Balaka, la parrocchia in cui lavoro, è stata fondata, la scuola è sempre stata una delle preoccupazioni principali dei missionari. “Se desideri aiutare una persona ad uscire dalla povertà e dalla fame è importante svegliare in quella persona la mente!”. Così ci insegnavano i vecchi missionari. Questo spiega perché molte volte nel villaggio, la costruzione della scuola precede la costruzione della chiesa.
I nostri tre vescovi monfortani bergamaschi, Monsignor Alessandro Assolari, Monsignor Luciano Nervi e l’attuale titolare Monsignor Alessandro Pagani, hanno fatto dell’istruzione un caposaldo della promozione umana della nostra gente.
Tutto questo è profondamente in sintonia con le parole che il Papa ha pronunciato in occasione della Giornata Mondiale per la Pace: “L’attuale crisi economica globale va vista anche come un banco di prova: siamo pronti a leggerla, nella sua complessità, quale sfida per il futuro e non solo come un’emergenza a cui dare risposte di corto respiro? Siamo disposti a fare insieme una revisione profonda del modello di sviluppo dominante, per correggerlo in modo concertato e lungimirante? Lo esigono, in realtà, più ancora che le difficoltà finanziarie immediate, lo stato di salute ecologica del pianeta e, soprattutto, la crisi culturale e morale, i cui sintomi da tempo sono evidenti in ogni parte del mondo. Per combattere la povertà iniqua, che opprime tanti uomini e donne e minaccia la pace di tutti, occorre riscoprire la sobrietà e la solidarietà, quali valori evangelici e al tempo stesso universali.
Più in concreto, non si può combattere efficacemente la miseria, se non si fa quello che scrive san Paolo ai Corinzi, cioè se non si cerca di “fare uguaglianza”, riducendo il dislivello tra chi spreca il superfluo e chi manca persino del necessario. Ciò comporta scelte di giustizia e di sobrietà”.
Le numerosissime scuole primarie costruite negli ultimi quaranta anni dai missionari, erano e sono un modo semplice ma efficace di “fare uguaglianza”, aprendo la mente e il cuore di miglia di bambini.
Purtroppo l’attuale situazione dell’educazione scolastica in Malawi è disastrosa. Tra le cause principali ci sono: la mancanza di maestri e di materiale didattico; a questo vanno aggiunti l’abbandono della scuola da parte dei bambini che vengono impiegati nel lavoro nei campi e delle banbine a causa spesso di una maternità precoce; In ultimo dobbiamo aggiungere le strutture scolastiche fatiscenti.
Ecco allora la nostra richiesta: aiutare le numerose scuole della missione di Balaka e in particolare la scuola di Chiendausiku, costruita 25 anni e oggi casa per quasi 1500 alunni.
Sarebbe un peccato lasciare cadere in rovina la fatica e lo sforzo di tanti missionari e benefattori che hanno aiutato a costruire questi “centri di sviluppo”. Quantificare in questo momento la spesa ci è impossibile. Ci affidiamo alla vostra generosità. Ogni offerta, anche piccola è per noi un grande aiuto. Zikomo, grazie.

Da Ardesio a Huaycan


di Marco Bigoni

Sono stato in Perù dall’8 dicembre 2008 al 20 gennaio 2009 e torno con gioia a dire due parole della mia esperienza in terra peruviana a Huaycan. È la missione di Padre Giovanni Bigoni, missionario monfortano nativo di Ardesio. In questo viaggio ho avuto come compagni ben nove ardesiani e due amici di Stezzano: Antonio, Franco, Augusto, Gianni, Egidio, Ermanno, Alessandro, Edoardo e le preziosissime donne di casa Lucia, Agnese e Arduina. Sono persone fantastiche che con me hanno condiviso, con spirito missionario e con tanta fatica fisica, questi quaranta giorni in Perù. Siamo stati tutti uniti, cercando di aiutare Padre Giovanni e i tanti poveri peruviani che si sono insediati in questa zona, all’inizio per fuggire dalla sanguinosa guerriglia di Sendero Luminoso, successivamente per fuggire dalle fatiche della Sierra, attratti dal miraggio di una condizione economica migliore che tuttavia la città non ha saputo offrire loro.
Padre Giovanni è sempre più impegnato nella sua costante e dura opera di evangelizzazione e promozione umana in questa immensa città, in mezzo a migliaia di persone. Una mole di lavoro impressionante: preparare la gente al Battesimo (500 nel solo mese di gennaio!) e alle prime comunioni, fare catechesi famigliare, visitare gli ammalati, farsi carico anche solo in parte dei problemi che di giorno in giorno nascono in una comunità di circa 160.000 persone. Tanta fatica la sua, ma senza mai lasciar trasparire stanchezza, senza mai manifestare pessimismo.
È stata questa la mia quinta esperienza a Huaycan. Devo ammettere di aver notato alcuni miglioramenti su strade e strutture private. Purtroppo ho dovuto constatare che la povertà rimane ancora a livelli alti. Ho notato anche che stanno aumentando la delinquenza, i furti e la violenza fisica.
Durante questa mia permanenza ad Huaycan ho condiviso con la gente momenti di allegria e anche situazioni e storie incredibili. Ho avuto modo di visitare baracche in legno con all’interno terra come pavimento, senza un bagno, senza un fornello, senza acqua, con bambini che ti abbracciano e ti sorridono chiedendoti una caramella. Ho ascoltato storie che mi hanno fatto sentire debole e impotente davanti a tanta miseria e sofferenza.
Con un progetto, studiato con cura dai nostri tecnici Italo e Marco, abbiamo costruito la struttura portante di un nuovo centro parrocchiale, all’interno dell’agglomerato di Huaycan. Si tratta di un’opera grande e complessa. Abbiamo lavorato con continuità e penso che il risultato di un mese di lavoro sia stato più che soddisfacente, riuscendo a costruire un’opera grande con costi ridotti. Qualcuno si è anche meravigliato di questo: “chissà quanto è costata!”. Ma di fronte all’evidenza si è dovuto ricredere.
In questo centro sono già operativi un “comedor” (mensa popolare ) e alcuni saloni per riunioni e catechesi. Noi abbiamo costruito il piano superiore: una chiesa di 400 mq, tenendo conto che é una zona abitata da circa 50.000 persone.
Scrivendo alla gente di Ardesio, così Padre Giovanni ha commentato la nostra esperienza di solidarietà missionaria: “Qui ci siamo sentiti tutti aiutati ed accompagnati dal paese, da tutti, sia nella preghiera che nell’appoggio economico e più ancora con i sacrifici di tante persone che soffrono con fede, uniti al crocefisso. Ci siamo sentiti segno ed espressione di un paese missionario, soprattutto io. Questo si è manifestato nella volontà, impegno, sacrificio, gioia, determinazione e unione con cui hanno lavorato. Credo sia stato un esempio anche per la gente. Spero che questo dono sia accolto, che questa chiesa tanto bella anche se non è ancora terminata, non sia un monumento nel deserto, ma realmente uno spazio di comunione, accoglienza, preghiera, impegno, un segno della presenza di Dio tra questa gente meno favorita. Un dono che fa nascere la voglia di crescere, impegnarsi e produrre tanti frutti di vita per il bene dei piu poveri”.
Grazie amici peruviani per l’accoglienza e l’amicizia dimostrata e grazie Padre Giovanni per il tuo esempio di fede e di amore verso il prossimo.

Un ospedale per la gente del Malawi


di Luigi Lorenzato

Quando Padre Lorenzo mi parlava con entusiasmo del “Masuku Hospital”, non riuscivo pienamente a comprendere la portata effettiva di un’iniziativa missionaria che lo aveva completamente coinvolto. Finalmente, in occasione del mio quarto viaggio in Malawi, ho avuto la gioia di visitare quella che subito mi è apparsa come la realizzazione più significativa dell’impegno di una vita missionaria spesa con generosità, sia nell’annuncio del Vangelo che nella promozione umana.
Ad un’ora circa di distanza dalla cittadina di Mangochi, percorrendo una strada abbastanza affidabile, si giunge ad una vasta spianata dominata da una costruzione che non intacca in nessun modo il bellissimo paesaggio naturale: è il “Masuku Hospital”, la missione di Padre Lorenzo.
Camminando nei vari porticati dell’ospedale, pur ascoltando con attenzione la spiegazione di Padre Lorenzo, ho avvertito subito la percezione della fatica dei piccoli passi e della conquista per una realizzazione che impone sempre nuovi traguardi: sì, non ho dubbi, è il capolavoro missionario di questo missionario padovano monfortano, che nella fase matura della sua vita, dopo esperienze comunque entusiasmanti in altre missioni come Nankhwali, Namalaka, Mangochi e Namwera, ha voluto sognare in grande e rispondere in maniera impegnativa alle esigenze di salute della sua gente.
È un’opera missionaria che è un vero miracolo d’amore e fa trasparire questa serenità che l’anima dal di dentro, come se un motore silenzioso la facesse girare per il verso giusto ed in maniera costante.
Anche i reparti amministrativi mi offrono l’idea di una vera funzionalità, non burocratica di italiana memoria, ma essenziale all’opera stessa per offrire un servizio necessario alla persona.
I bambini, molti dei quali sono attaccati al seno materno, sono tutti ben coperti nonostante la temperatura di questo fine aprile sia mite; tutti hanno una cuffietta di lana colorata che spicca sul colore scuro della loro pelle; altri sgambettano sotto lo sguardo delle mamme avvolte nelle loro coloratissime gonne, lunghe fino alla caviglia.
È il trionfo della vita in un posto sperduto del mondo e del grande continente africano: nel “Masuku Hospital” le donne possono finalmente partorire con l’assistenza necessaria e nelle condizioni più idonee per tutte quelle situazioni di emergenza che si potrebbero venire a creare, anche in relazione al dramma della sieropositività e dell’AIDS conclamato.
L’assistenza farmacologica, unitamente a quella nutrizionale, ha contenuto in maniera determinante i numeri della mortalità a causa dell’ampia diffusione della malattia e della sieropositività nella trasmissione tra madre e figlio.
Del resto, all’origine del “Masuku Hospital” c’era proprio l’idea di offrire una speranza di vita, di fermare il contagio della sieropositività fin dalla gravidanza e di mettere a disposizione una risorsa irrinunciabile al fine di garantire alla popolazione quel “diritto alla salute”, uno degli obiettivi del millennio (Millennium Goals), tanto sbandierato nelle conferenze internazionali, quanto disatteso nei Paesi in Via di Sviluppo.
La commozione mi assale, seppur compressa e contenuta anche per l’allegria di Padre Lorenzo, sovrano indiscusso di questo “regno del bene”: saluta tutti, ha una parola per il personale medico, in chichewa, la lingua locale, scherza con le mamme offrendo lo spunto di un sorriso.
Lui che non è medico, forse lo è più di tutti in maniera spontanea: cerca di imporre uno stile di accoglienza serena del malato che di fatto ha bisogno non solo di cure, ma anche di quella speranza che parte proprio da un sorriso.
Il “Masuku Hospital” è un vero ospedale, gestito con criteri di qualità assoluta in un ambiente che non ha altri riferimenti sanitari, un modello riproducibile anche in altre zone del Malawi, “il caldo cuore dell’Africa” come è chiamato nella pubblicità turistica.
Davanti ad un caffè, nella cucina di Padre Lorenzo, sembra quasi che lui attenda il mio giudizio: lo entusiasmo ulteriormente quando gli dico che non mi aspettavo un simile capolavoro missionario!
Dietro tutto questo lavoro di amore e di speranza c’è la vita di un grande missionario italiano, i gesti di generosità di tanti benefattori che garantiscono silenziosamente la continuità d’azione di questo ospedale, ed infine, il sostegno della preghiera di tante persone: un cordone ombelicale lega due realtà, quella italiana e quella di Masuku in maniera inscindibile!
Il “Masuku Hospital”, quello che mi piace definire “il capolavoro missionario di Padre Lorenzo”, è anche il nostro ospedale, quello che dobbiamo sostenere, anche a costo di qualche rinuncia, per far trionfare la vita, ridare la speranza ai fratelli del Malawi ed un senso migliore alla nostra.

Educare all'incontro


“Ho vissuto negli anni della contestazione studentesca e da anima inquieta, sempre alla ricerca di un significato forte da dare alla mia vita. Mio padre era un dirigente nazionale della Democrazia Cristiana. Io, come tanti altri della mia generazione, ero convinto (e lo sono tutt’ora) che non si potesse essere cristiano e non battersi per la giustizia. Dopo essermi impegnato su vari fronti, nel 1975 sono entrato nella Compagnia di Gesù. Ero già affascinato dal mondo arabo, con cui avevo avuto un primo contatto durante un viaggio in Siria compiuto via terra da studente e un pellegrinaggio in Terra Santa. Chiesi di essere inviato al mondo islamico e nel 1977 l’allora Padre Generale Pedro Arrupe mi accontentò inviandomi a Beirut a studiare. Là il mio superiore era Peter-Hans Kolvenbach. In Libano mi scontrai con la realtà mediorientale. Dopo gli studi di teologia in Italia, nel 1980 ero a Damasco a studiare l’arabo. Non avevo elaborato niente a livello cosciente, per questo dico spesso che è stato il mio futuro ad attrarmi” A parlare così, sotto una grande tenda dove vengono accolti i visitatori a Mar Musa, in Siria, è Paolo Dall’Oglio, un gesuita romano. Per arrivarci, la macchina mi porta in pieno deserto, ad un’ottantina di chilometri a nord di Damasco, e si ferma davanti ad un sentiero stretto che sale verso la montagna. Dopo essere salito quasi quattrocento gradini, a 1300 metri di altezza, attraversato una piccola porta entro in questo particolarissimo e straordinario monastero. Come sei arrivato qua? gli chiedo. “Nell’estate del 1982 mi capitò tra le mani una vecchia guida della Siria e lessi di questo luogo, dell’antico monastero e delle tante grotte che avevano ospitato numerosi eremiti. Decisi di venire qui a fare i miei esercizi spirituali annuali. Con lo zaino in spalla arrivai alla piccola porta. Era ormai quasi buio. La prima cosa che feci fu varcare la soglia della chiesa e subito sentii su di me lo sguardo dei santi raffigurati negli affreschi dell’undicesimo e dodicesimo secolo. Alzai gli occhi e vidi il cielo: il tetto non c’era più, crollato chissà quando. Fu un amore a prima vista. Sentii di essere giunto alla meta. Terminati gli esercizi, lasciai Deir Mar Musa sapendo che quello non era un addio”. Da quel giorno, sono passati quasi trent’anni e Paolo ha mantenuto la promessa. Dopo gli studi islamici a Damasco e all’Orientale a Napoli, ordinato prete nel 1984, da gesuita decide di radicarsi in una Chiesa locale d’Oriente, “di quelle che erano sopravvissute alla profezia coranica e per secoli avevano coabitato con essa”. Sceglie il rito della Chiesa siriaca, “apostolica, semitica, popolare, una povera Chiesa di cristiani ai bordi del deserto, che non è mai stata imperiale” e la cui liturgia, “senza transitare per la lingua greca, ha assunto l’arabo, la lingua sacra dell’islam, conservando inni e preghiere in lingua siriaca (o aramaica) parlata da Gesù stesso”. Nel frattempo si è dato un gran dare per restaurare e far rinascere il monastero ma soprattutto per dar vita ad una comunità monastica, maschile e femminile, che porta il nome di Al-Khalil, ovvero “l’amico di Dio, Abramo”. Oggi i membri della comunità sono sette, cattolici e ortodossi, uomini e donne, e, oltre ai due monasteri di Mar Musa e Mar Elian (situato a Qaryatayn, ad una cinquantina di chilometri da Deir Mar Musa), contano uno studentato a Cori, in Italia, dove vivono tre confratelli, allievi della Gregoriana. Continua padre Paolo: “Qui da noi nessuno rifiuta le proprie origini, ma vogliamo essere una comunità monastica cattolica di spirito ecumenico. Vogliamo praticare una larga ospitalità eucaristica tra cristiani. Cerchiamo di valorizzare le particolarità dell’esperienza e delle tradizioni altrui. La nostra vita monastica ha il suo punto di forza nel dialogo con la religione maggioritaria, l’Islam”. La piccola comunità monastica si raccoglie attorno a tre “priorità”: preghiera, lavoro manuale (olive, capre, carne e formaggio, lavori in cucina, biblioteca) e ospitalità, “che nel mondo semita, arabo e d’origine nomade, è la virtù più alta”. Niente di originale: Ora et labora. Se non fosse che si è nel cuore dell’islam. E che gli ospiti a cui Paolo apre le porte del monastero sono soprattutto i figli e le figlie della Umma islamica. Quelli che ogni giorno ripetono almeno cinque volte, ad Allah grande e misericordioso, quell’affidamento alla misericordia divina senza il quale nessuno può piacere a Dio.

Eppure il rapporto tra cristianesimo e islam non è facile

Credo profondamente che Dio sia stato generoso. Ha creato gli uomini all’interno di nazioni, di tribù e di appartenenze religiose diverse. In tutto questo sta, sicuramente, una saggezza. Dio accetta che, a causa del nostro limite, la sua divinità sia umiliata nel dogmatismo settario, nell’ideologia chiusa e nella visione manichea. Dio si lascia umiliare nelle anime dei suoi figli. È vertiginoso. Lui che è disceso in fondo a ogni anima resta attivo in ognuna, continua ad appassionarsi per gli sguardi spenti e li riaccende. Nella Chiesa noi crediamo, e abbiamo ragione di credere, che il mistero di Gesù di Nazareth sia perfettamente adatto all’uomo, che il linguaggio della Chiesa, ispirato dallo Spirito Santo, sia adeguato al mistero. Eppure, questo mistero ci supera sempre, non si lascia catturare facilmente! Per questo mi chiedo: cos’è questa paura di “farsi battere” Smettiamola di aver paura. La verità è sempre complice della verità. Ogni atomo di verità è complice di qualsiasi altro atomo di verità: tutto è coordinato già da prima e tutto si accorderà sempre più. Non bisogna mai odiare la verità con il pretesto che la si vede negli altri! I doni che riceviamo, i nostri talenti, non sono fatti per distinguerci gli uni dagli altri, ma per essere condivisi. Gesù non è figlio di Dio per dimostrarci che noi, poveri uomini, non lo siamo. Al contrario, è figlio di Dio per procurarci la sensazione di essere anche noi suoi figli. Se la Chiesa crede alla salvezza per i suoi fedeli, allora è assurdo escludere l’immensa massa di non cristiani! Ho fiducia nel fatto che, attraverso il dialogo, la Chiesa scoprirà l’attività dello Spirito nelle altre tradizioni, capirà che l’atto compiuto da Dio in quella rivelazione polemica che l’islam rappresenta nella storia dell’umanità. La luce avanza in ognuna delle numerose tradizioni della religione umana. Fino a poco tempo fa si credeva che tutti fossero chiamati alla Chiesa. Oggi ci stiamo accorgendo che non è affatto vero. Dio sembra piuttosto confermare gli altri nella loro tradizione religiosa. Vivono felici, realizzati, cercano perfino di convertirci! Tutto questo, naturalmente, solleva questioni, angosce, curiosità.

Mette in gioco il rapporto tra identità e differenza

L’identità, il riconoscimento dell’identità cristiana, ha una sua particolarità che non è opposta alle altre identità ma è già in relazione con esse. L’autocoscienza identitaria cristiana è quella di portare un mistero dinamico tendenzialmente universale non attraverso il superamento delle identità altre ma attraverso la valorizzazione in Cristo (la glorificazione) della storia culturale e religione delle diverse particolarità identitarie anche nella loro pretesa di universalità, nel loro desiderio di cattolicità (come nel caso dell’Islam). Questo può e deve valere anche nella catechesi. Se il bambino cristiano può capire il corpo di Cristo (mistero magnifico ma difficile), se può capire la comunione dei santi, perché non può capire che Gesù di Nazareth è radicabile, rinnovabile, restituibile in tutte le particolarità umane? Ma il vero lavoro bisogna farlo con gli adulti. Occorre capire che se si educa al Vangelo si educa all’incontro. Oggi invece, a volte anche nella chiesa, impera la trasversalità del pensiero unico, che riduce ad uno, al pensiero “cattolico”. Che per natura invece, nel suo incarnarsi progressivo, è “plurale”.

In questo modo non si annacqua la “differenza cristiana?”
No! Io so che annuncerò fino alla fine l’Evangelo di Gesù. Ma so anche che, di fronte a me, un musulmano non si stancherà di annunciare, con la stessa intensità, la profezia del Corano. Qui, in mezzo ai credenti musulmani, ho imparato che l’unico mezzo per donare la propria vita per Gesù consiste nell’aiutare ognuno a essere un pellegrino di verità, non limitarlo all’interno del suo contesto, valorizzare la sua esperienza di Dio.

Sulla scia di Massignon, il “cattolico mussulmano” come lo chiamò papa Pio XI, o di Charles de Foucauld

Il loro lavoro di “dissodamento” potrebbe durare ancora secoli prima di dare i suoi frutti. Poco importa! Non abbiamo fretta… Vediamo molto bene il nostro limite come esseri umani. Che cosa fa Charles de Foucauld nel cuore dell’Algeria? Non converte nessuno, si posiziona là, semplicemente, come un granello di lievito. Con pazienza e umiltà, la sua avventura si fa cristiana; compie piccoli passi dietro a Gesù. Come lui, anch’io cerco di vivere vicino ai musulmani, di accoglierli in profondità, dolcemente, per provare l’universalità del messaggio di Cristo. Spingo questa logica più lontana che posso, senza sapere dove ci condurrà. Penso che i risultati stupiranno tanto i musulmani quanto i cristiani, alla fine dei tempi.

Non hai l’impressione di andare controcorrente?

Sì, ma non è questo che mi preoccupa. Mi preoccupa piuttosto l’inevitabilità dello scontro che ci stanno prefigurando. La guerra ci sarà perché la sventura è contrabbandata continuamente nei libri, nei mezzi di informazione, nei media. L’altro è rinchiuso nell’immagine stereotipata e pregiudiziale. Per un gioco di specchi il nostro integrismo si specchia in quello mussulmano, il nostro fondamentalismo si specchia nel fondamentalismo mussulmano.

Cosa sogni per il cristianesimo siriano?

Sogno una presenza di minoranza nel mondo musulmano, spiritualmente e teologicamente contenta di essere tra loro, di essere per loro, di essere con loro. Qui a Mar Musa scommettiamo su un cristianesimo orientale residuo, che non resti per tradzionalismo, reliquia residuale, ma per convinzione vocazionale: è il nostro privilegio. D’altronde, in Siria da quattordici secoli cristiani e mussulmani vivono insieme. E questa commensalità vorrà pur dire qualcosa!

Come San Francesco a Damietta, insomma

Sì, in mezzo al divampare delle Crociate Francesco ha profetizzato il fallimento della soluzione militare e ha annunciato una via molto diversa per portare Cristo nella tenda del sultano. Sia chiaro, noi non siamo qui ‘in cerca di martirio’. Ci sentiamo molto vicini ai sette monaci trappisti dell’Atlante, che poi il martirio l’hanno effettivamente subìto, ma erano andati in Algeria per instaurare una relazione di amicizia e fraternità, in nome di Cristo, con i musulmani. Se solo sapessimo ammirare l’enorme lavoro di Dio in ogni uomo, in ogni tradizione, in ogni famiglia umana!

Daniele Rocchetti

Risollevare lo spirito


Willy Lambert è il direttore e fondatore di Mission-langues, il centro di formazione al servizio della Missione della Chiesa, che a Banneux (Belgio) lavora in stretta collaborazione con le Pontificie Opere Missionarie. Dopo 15 anni di servizio il centro vive la svolta importante di cambiare la sede storica per collocarsi altrove. Chiediamo al fondatore un breve bilancio di questa esperienza e le prospettive future.

Con quale obiettivo è nata Mission-langues

Come dice il nome “Mission-langues” è una associazione senza scopo di lucro che svolge una “missione”: preparare a livello linguistico e in un contesto appropriato, sacerdoti, religiosi, religiose e laici impegnati provenienti dai cinque continenti, che già esercitano o si apprestano a esercitare una missione a servizio della Chiesa.

Cosa ha di speciale questa scuola?

Abbiamo approntato un programma che venisse incontro a tre preoccupazioni essenziali dei futuri missionari: dal punto di vista pedagogico una metodologia “su misura” che permetta un apprendimento “comunicazionale”, utile ed efficace della lingua, qualunque sia il livello iniziale di conoscenza del francese. Dal punto di vista spirituale : un’integrazione della vita di preghiera e una progressiva familiarizzazione con la vita liturgica nella nuova lingua. Dal punto di vista umano: un contesto conviviale e aperto che favorisce la vita di studio e prepara all’apertura verso altre culture.

Più che una semplice scuola di lingue…

Esatto! E poi si trova a due passi dal santuario di Banneux, dove nel 1933 è apparsa per otto volte la Madonna a una giovane veggente. È un centro di spiritualità molto frequentato, che ha sempre offerto ai nostri saggisti la possibilità di risollevarsi nello spirito.

Come è andata in questi quindici anni?

A tale proposito vorrei offrire qualche cifra: più di 1900 saggisti, originari di 96 differenti nazionalità sono stati accolti al nostro centro di Banneux. Essi rappresentano ben 181 congregazioni, così come una settantina di diocesi del mondo intero.

Perché lasciate Banneux?

Come potete immaginare, questa decisione non è stata per niente facile. Da una parte l’isolamento di Banneux, disperso nella campagna di liegese, è diventato un handicap per il nostro sviluppo. D’altra parte la messa a norma dello stabile imposta dalle leggi europee, necessita di un investimento troppo oneroso. Il trasferimento di Mission-Langues in un centro urbano è dunque parso come il modo migliore di assicurarne un futuro, permettendoci anche di diversificare la nostra proposta di formazione e di favorire una maggiore apertura pastorale e missionaria.

Dove continuerà Mission-Langues?

In un primo momento avevamo in programma di stabilirci a Bruxelles all’inizio del 2009, ma ciò purtroppo non si è potuto realizzare. Incoraggiati da vari responsabili della vita ecclesiale, ci siamo orientati verso la Francia proprio in vista di sviluppare Mission-Langues in collaborazione con una istituzione religiosa. Il nostro obiettivo è di mettere in piedi, insieme al centro linguistico, anche un vero e proprio centro missionario.

Avete qualche modello di riferimento?

Sì, per questo passo in avanti ci ispiriamo al CUM di Verona: non solo una preparazione linguistica, ma dei corsi sulla missione, con esperti provenienti dal continente africano. Ci resta ancora molto lavoro da fare, ma siamo convinti di questo progetto.

Avete interrotto i corsi. Quando ricomincerete?

In nostro è un progetto veramente ambizioso, che come potete capire, non è realizzabile in un sol giorno. Abbiamo dovuto perciò sospendere le attività alla fine del 2008, per riprenderle nel corso del secondo trimestre 2009. Ci premuniamo comunque di ricontattare, non appena disporremo di più ampie informazioni tutti coloro che sono interessati.

Come fare per contattarvi?

È possibile consultare il nostro sito Internet (www. missionlangues.be), che durante questo periodo di transizione rimane il migliore veicolo informativo e viene regolarmente aggiornato

Allora: à bientôt!

Ringraziamo voi e tutti coloro che ci hanno accordato fiducia lungo tutti questi anni e attendiamo con impazienza di poter accogliere di nuovo i missionari provenienti da tutto il mondo.

Padre Marco Pasinato

Fare del mondo una sola famiglia


Padre Angelo Pansa è un missionario saveriano bergamasco di 77 anni; di lui si sono occupati a più riprese i media, non solo nazionali. Convinto difensore dei diritti degli Indios e delle straordinarie risorse della Foresta Amazzonica, è stato fatto oggetto più volte di minacce di morte a causa di alcuni progetti la cui realizzazione andava contro gli interessi di potenti multinazionali responsabili di misfatte ambientali perpetrate con forti coperture politiche, e non solo. A fianco degli Indios, con la solidarietà di alcuni organismi internazionali di sviluppo e cooperazione, ha messo in campo iniziative di grande interesse per dar loro una concreta speranza di sopravvivenza e la prospettiva di una autonoma gestione della propria esistenza, sia sul versante del cibo che su quello della cura della salute. La foresta amazzonica ha un patrimonio tale di risorse che, qualora ne fosse garantita la sopravvivenza, fornirebbe alle comunità che la abitano un giusto e dignitoso standard di vita. Padre Angelo si è battuto perché questa ipotesi di sopravvivenza per gli Indios dell’Amazzonia non restasse una semplice utopia ma si trasformasse in un progetto concreto. Ma non è stato facile. Per motivi di sicurezza ha dovuto lasciare il Brasile. Ora si trova in Italia per rimettersi in forma e per prepararsi a vivere una nuova esperienza di “condivisione” con i poveri.

Padre Angelo, come è nata la tua “passione” per la causa missionaria?

La mia passione missionaria, mi è piaciuta l’espressione passione, è più consona alla causa missionaria che non il termine vocazione, è sorta in occasione di un incontro avvenuto nel 1941-1942 a Bergamo, nelle Scuole Elementari di via Angelo Maj. Nella scolaresca alla quale appartenevo un Missionario Saveriano, espulso dalla Cina Comunista, venne a parlarci della sua esperienza di missione, delle difficoltà, della persecuzione ma anche della gioia nel vedere persone che all’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo diventavano cristiani. Ci parlò anche dell’aiuto materiale che offriva ai più bisognosi, e non solo della Parola di Dio. Ricordo che alla fine di quell’ora trascorsa ascoltando e facendo domande, il missionario ci rivolse una domanda a bruciapelo, in modo tale che avessimo a rispondere quasi per istinto, senza pensarci su troppo. E la domande fu questa: “C’è qualcuno tra di voi che se la sentirebbe di tentare di fare lo stesso di ciò che noi abbiamo fatto e che adesso non siamo più in grado di fare?”. In due abbiamo alzato immediatamente la mano, io e Giuseppe Arnoldi, divenuto anche lui missionario saveriano e destinato più tardi alla Missione dell’Indonesia. Da vari anni Padre Giuseppe ha raggiunto la meta finale dell’esistenza terrena. Dopo di noi, alcuni altri, dopo qualche esitazione, hanno anche loro alzato la mano.
Padre Lorenzo Lini, il missionario che ci aveva parlato della missione, ci chiese l’indirizzo di casa e ci disse di avvisare i nostri genitori che sarebbe venuto a trovarci per un colloquio. Dopo tale incontro con la famiglia egli rimase in contatto con noi per vari mesi per poi, dopo l’accordo dei genitori, invitarci a lasciare la famiglia per continuare gli studi nel Seminario dei Missionari Saveriani.
Con il passare degli anni, degli studi, e il continuo contatto con formatori che erano missionari, la vocazione “passione” si consolidò. Arrivarono così di seguito: la Professione Religiosa, poi l’Ordinazione Sacerdotale (nel 1956) e la destinazione con il primo gruppo di Saveriani in Congo (1958), la “traversata” del periodo burrascoso della Rivoluzione Congolese, il richiamo in Italia (1967) ed il “dirottamento” verso la nuova missione in Amazzonia (1967) da cui sono stato nuovamente richiamato lo scorso anno (2008) con la previsione di un ulteriore “dirottamento”, al momento però non so ancora per quale destinazione.

Quali di queste tappe sono state le più importanti?

Ritengo tappe importantissime quelle che hanno cambiato il mio modo di svolgere la “missione”. Nei primi anni, cioè prima dell’Indipendenza del Congo Belga, adottavo lo stile catechetico tradizionale che i Padri Bianchi avevano utilizzato in Africa: 4 anni di catecumenato molto intenso che determinavano il successivo inserimento nella comunità cristiana con il Battesimo e gli altri Sacramenti. Con il sopraggiungere delle prime difficoltà successive alla dichiarazione dell’Indipendenza del Congo (1960) e l’aggravarsi della situazione nei confronti dei non africani, ci si è sentiti in dovere di rimanere vicino alle comunità cristiane per cercare di far fronte a tutta una serie di ingiustizie, di angherie e di violenze (anche estreme) nei confronti della stessa popolazione congolese sia da parte dell’Esercito Regolare, sia da parte delle Truppe Rivoluzionarie Ribelli, sia da parte dei mercenari stranieri venuti in soccorso del Governo Congolese.
Condividendo le condizioni di vita molto difficili della popolazione ci siamo accorti che era questo il vero stile evangelico dell’annuncio. Il detto di Gesù “Sono venuto perché tutti abbiano vita e una vita in pienezza” (non solo vita in abbondanza come a volte è stato malamente tradotto) lo stavamo vivendo anche noi con la gente. Tale testimonianza mostrava che stavamo sforzandoci di mettere in pratica quello che dicevamo a parole.

C’è stata quindi una evoluzione nel tuo modo di fare missione.

Questo modo di vivere la “passione missionaria” ho cercato di riviverlo nella nuova esperienza missionaria in Amazzonia. Ecco perché, convivendo con la popolazione che incontravo, indipendentemente se si trattava di cristiani o non cristiani, di Indios, di “Senza-Terra”, di operai delle miniere, di “schiavi dell’oro” lungo i fiumi, di coloni portati con l’inganno lungo la “Transamazonica” e poi abbandonati alla loro sorte e molte volte espulsi dai loro campi da parte dei grossi latifondisti, la mia preoccupazione era quella di farmi carico con loro dei problemi vitali legati alla sopravvivenza, sia fisica sia culturale in modo da garantire il loro diritto alla “vita in pienezza”.

Evangelizzazione e promozione umana: come hai saputo conciliare queste due priorità nello svolgimento della tua intensa attività missionaria?

Nonostante l’urgenza e la gravità delle situazioni conflittuali, sempre ho trovato fondamentale il momento dell’annuncio esplicito della persona di Gesù Cristo, al quale ho tentato di ispirarmi facendolo “rivivere”, mostrando in pratica come Lui ha vissuto i “Valori del Regno”: Verità, Giustizia, Fraternità, Pace e soprattutto Condivisione. Ed è proprio cercando di testimoniare in modo esistenziale questa Condivisione che, specialmente con i gruppi di Indios con i quali ho vissuto più tempo, credo di essere riuscito a modificare l’opinione che essi avevano del cristiano: l’uomo dalla lingua biforcuta, che non dice mai quello che pensa e non fa mai quello che ha detto.

I media, non solo nazionali, si sono interessati a più riprese delle tue iniziative a favore degli Indios d’Amazzonia. Per quale motivo?

Credo che quello che ha suscitato l’interesse di vari organismi internazionali con i quali sono venuto a contatto, sia il mio impegno per la difesa dei diritti dei poveri, e per aver messo a punto alcuni elementi che ritengo essenziali per uno sviluppo sostenibile e che ho cercato di applicare nella progettazione e realizzazione delle mie iniziative:
- ogni progetto deve essere analizzato e valutato dalla comunità locale, che così si sentirà coinvolta nel processo e assumerà le dovute responsabilità;
- deve svilupparsi in modo tale che nel tempo più breve possibile e porti il gruppo umano all’autonomia nei 3 campi fondamentali: alimentare (includendo l’acqua potabile), sanitario, educazionale (la loro cultura);
- far riscoprire (o fare crescere, dove ancora esiste) il quarto valore essenziale perché la vita sia possibile, e cioè la condivisione che equivale a “Vivere insieme”, o meglio ancora “Respirare insieme”, come gli Indios Bakairi hanno tradotto l’espressione natalizia: “E venne ad abitare tra di noi”: “Viene a respirare con noi”.
-3 elementi sono essenziali: Acqua, Aria, Cibo. I minerali non sono essenziali, anche se necessari o utili. Ecco perché gli Indios non capiscono come si sventri la Terra Madre per prendere quelle “pietre gialle” il cui fumo uccide. Gli Indios dicono: “Se il Grande Spirito avesse pensato che erano essenziali per la vita, le avrebbe appese sui rami degli alberi perché tutti ne potessero usufruire, invece le ha nascoste perché restino dove sono.

Quali progetti per il futuro?

Interessante sarebbe parlare delle tante esperienze maturate negli anni del mio impegno in Amazzonia. Considerato nemico delle potenti multinazionali almeno una decina di volte ho corso seri pericoli di morte. Anche di recente, per essere vissuto e per aver lavorato in terreni inquinati da potenti dosi di diossina, sono stato in coma per una ventina di giorni, salvato da un provvidenziale intervento di un medico che si era specializzato proprio nel reparto infettivi degli Ospedali Riuniti di Bergamo. Progetti per il futuro? Ancora aspetto le proposte della mia Direzione Generale e spero che mi mandino in qualche altra missione, magari in Africa, per “condividere” la mia vita con altri gruppi umani, aiutandoli, perché no, con un secondo progetto di ricostituzione della copertura vegetale nativa abbinata a coltivazione agricola temporanea in qualche villaggio del Mozambico, oppure realizzando qualche miniprogetto di Pozzi d’Acqua, dove ce n’è bisogno.

Cosa ti senti di dire ai lettori di una rivista missionaria?

Oltre al grazie per tutto quello che hanno fatto e stanno facendo per sostenere l’impegno missionario in tante realtà del pianeta, li invito a crescere sempre più nel quarto valore essenziale di cui si parlava sopra? Condividere con altri, vicini o lontani che siano, la propria esperienza di annuncio e dei valori del Regno di Dio, sia nella nostra vita privata che in quella sociale, a cominciare dalla propria famiglia per poi estendersi alla comunità, al paese, e giungere al mondo intero con la crescita della dimensione universale della Missione che Cristo ha affidato a ciascuno e a tutti noi: “Fare del mondo una sola famiglia”. Per gli Indios, la famiglia è il primo, il più piccolo degli individui che “respirano insieme”.

Di Padre Angelo qualcuno ha scritto: “Padre Angelo è fatto così. Tutt’oggi è un uomo che in Brasile trascorre le sue giornate con le mani nella terra, accanto alle popolazioni indigene con cui sta difendendo il coraggioso programma di tutela e di ripiantumazione nella Foresta Amazzonica; ma abbiamo visto che di colpo lo possiamo trovare dall’altra parte del mondo a colloquio con le più alte sfere del Clero italiano, o con le grandi commissioni internazionali per la difesa dell’ambiente. Un uomo pratico, insomma, e insieme un grande stratega”.

Padre Santino Epis

Andar per filosofi

Andar per filosofi non può che elevare. È come salire sui monti per vedere più lontano e più in alto. Certo perdura ancora la leggenda sciocca che i filosofi sono frequentatori di nuvole, precipitano nel primo fosso che gli si para davanti ai piedi e fantasticano di problemi astrusi. Da qualche tempo poi i cosiddetti scienziati tentano di gettarli fuori dalle antiche dimore per insediarvisi quali unici signori della ragione. Eppure i filosofi resistono. Sciamano verso convegni e persino festival specifici, addensando platee di giovani uditori. Ascoltate un vero filosofo e ne sarete conquistati! Posso io dimenticare una lectio magistralis di Cornelio Fabro udita nell’aula magna della Pontificia Università Lateranense oltre quarant’anni fa, o un dialogo in cui mi sono trovato gomito a gomito con Salvatore Natoli, a riflettere sul tema dell’inquietudine, nella sede di un’associazione culturale di Bari? Il Corriere della Sera, alleandosi con la Bompiani, ha mandato in edicola i dodici volumi della fortunatissima Storia della Filosofia curata da Giovanni Reale e Dario Antiseri, e due volumi integrativi a cura dello stesso Antiseri e di Silvano Tagliagambe sui filosofi italiani del Novecento e sui filosofi italiani contemporanei. Chi sa “quelque petite chose” di filosofia può ripassare i percorsi di pensiero che adottò e quelli che evitò, e vi si può rispecchiare criticamente sempre pronto a discernere e a imparare.
Come si fa a non verificare con Giovanni Reale la verità dell’asserto di Heidegger che la filosofia con i Greci è nata grande? Si pensi al maggiore dei Presocratici, a quel Parmenide che Platone definiva omericamente “venerando e insieme terribile” e che, ancor oggi, fornisce tanta legna per la combustione speculativa di Emanuele Severino, il pensatore italiano più potente, la cui tesi si pone come una sfida a ogni testa filosofante. E come ignorare i messaggi straordinari di Eraclito che proprio Reale sottolinea? “I confini dell’anima non li potrai mai raggiungere per quanto tu proceda fino in fondo nel cercare le sue strade: così profonda è la sua ragione”: primo riconoscimento dell’infinita profondità della ragione; “Difficile è la lotta contro il desiderio, perché ciò che esso vuole lo compera al prezzo dell’anima”: il tema di fondo del Faust di Goethe; “Se uno non spera, non potrà mai trovare l’insperabile, perché esso è difficile da trovare e impervio”: un insegnamento per curare lo scetticismo e la disperazione dei nostri giorni. E un pensiero di Anassagora che rivela perché si fa filosofia: “Le cose che si vedono sono l’aspetto visibile di quelle che non si vedono”.
Per anni in Italia circolarono un pregiudizio denigratorio nei confronti dalla filosofia italiana e una smania di soggezione nei confronti delle filosofie di più varia importazione. Ora è bello leggere che Massimo Cacciari, insofferente dei “paradigmi vittoriosi”, ha deciso di dedicare la prossima opera alla “linea” italiana che sale da Dante ad Alberti, a Bruno, a Vico, a Leopardi, a Michelstaedter, a Rensi, e di misurarsi con sistemi di pensiero, “nei confronti dei quali avverte la più profonda concordia discors”, in particolare con “la più importante impresa filosofica dopo Heidegger e versus Heidegger” del già ricordato Emanuele Severino.
Consiglio a tutti una cavalcata attraverso le filosofie di venticinque secoli con gli occhi puntati soprattutto alle “stelle fisse” del pensiero, che risentono fatalmente del messaggio cristiano ora precorrendolo, seguendolo e tematizzandolo, ora tralignando da esso e contrastandolo. Come non appassionarsi pedinando Socrate, Platone, Aristotele, Plotino, Agostino, Tommaso, Pascal, Vico, Kierkegaard, Rosmini? Come non accettare il confronto con Hume, Voltaire, Hegel, Marx e ancor più con Nietzsche? Ed egualmente con i filosofi del nostro tempo, sia con “il filosofo-sentinella che ama la chiarezza e la controllabilità e sostiene, come Socrate, di sapere di non sapere”, sia con “il filosofo-oracolare che, di contro, preferisce l’oscurità e si presenta sulla scena come un portatore di verità inscalfibili dal tempo”, come Massimo Baldini distingue.
Andar per filosofi è una ventura alla quale esporsi per praticare la ragione più larga e più alta, come ci insegna Benedetto XVI, che quand’era il grande teologo Joseph Ratzinger partecipava a simposi e convegni, dibattendo con maestri come Bloch e Habermas. Ieri leggevamo fervidamente Capograssi, Sciacca, Del Noce, Cotta, Fabro, Castelli, e non perdevamo di vista Gramsci, Geymonat, Bobbio, Abbagnano e Pareyson. Oggi preferiamo leggere Antiseri, D’Agostino, Melchiorre, Possenti, Reale, Riconda, e non scansiamo Giorello, Vattimo, Viano, Ferraris, passando per Bodei, Pera, Givone, Dorfles, Eco. Alla fine tutti cercano la Verità, sì maiuscola e per i credenti e per i non credenti, perché diversamente non avrebbero scommesso sulla filosofia con tanta severa assiduità le loro ore.
Bisogna pregare che le categorie di tali mirabili teste pensanti, non rinunciando al proprio statuto fondato sulla ragione, sappiano aprirsi all’epifania meta-culturale della fede, o almeno non escludano la nostalgia di una sua luce. E che sorgano anche nuove vocazioni filosofiche, umili nella coscienza del carattere limitato del sapere e dei suoi risultati, e, insieme, strenue nell’esercizio della ragione. Sofia Vanni Rovighi professava correttamente: “Io non ho nessun motivo di abbandonare la mia ragione finché mi serve, di affidarmi a Qualcuno quando io vedo la strada. Accetterò la Rivelazione solo per quelle verità che sono superiori alla forza della mia intelligenza, alle quali la mia ragione non arriva”.

Padre Basilio Gavazzeni

La convivenza dei popoli

È difficile scrivere del conflitto israelo-palestinese che ciclicamente, con una sinistra cadenza, entra prepotentemente nelle nostre case. È difficile perché ogni qualvolta lo si affronta, il rischio del pregiudizio, ideologico, politico e culturale, è in agguato. Con uguale facilità, i partigiani dell’una e dell’altra parte, azzerano ogni complessità, riducono a frammenti grumi di pensiero e di storia che andrebbero sezionati con cura, analizzati con rigore. Quasi sempre, invece, sono scelte di campo che non lasciano spazio a dubbi, ostentano certezze, non riconoscono le ragioni dell’altro. Perché questo è il dramma che si trascina sin dal 1948, anno della fondazione dello Stato d’Israele: il dramma di due popoli che hanno entrambi forti ragioni da esibire. Gli ebrei, quando nasce lo Stato d’Israele, ritrovano una terra dopo duemila anni di esilio forzato che ha significato diffidenza, oltraggi, emarginazione, segni distintivi, chiusure in ghetti, espulsioni, fino allo sterminio sistematico operato dall’ideologia razziale e biologica nazionalsocialista. Un lungo martirologio, sfociato nella Shoah, che ha trovato linfa e alimento anche da un sentimento antigiudaico coltivato nel corso dei secoli all’interno delle comunità cristiane. Da “perfidi giudei”, usato, fino al 1958, durante la preghiera universale della liturgia del Venerdì Santo a “fratelli maggiori”, il saluto rivolto da Giovanni Paolo II il giorno in cui viene ricevuto dal Rabbino Toaff alla sinagoga di Roma: in questa lunga parabola, ci sta tutto il cammino di conversione della chiesa e dei cristiani.
Lo Stato d’Israele nasce da una risoluzione dell’ONU ma su una terra che da secoli vede la presenza di arabi palestinesi. I quali, a partire dal 1948, sono stranieri nella casa che hanno sempre abitato. Centinaia di villaggi distrutti e cancellati dalle carte geografiche, migliaia di profughi illusi o costretti a lasciare case e terreni, un territorio segnato progressivamente – soprattutto dopo la guerra dei sei giorni, del giugno del 1967 - dalla presenza di check point e da numerosi insediamenti in zone occupate e mai più restituite. Nello scacchiere geopolitico, i palestinesi non contano: abbandonati al loro destino dai “fratelli” arabi che pure strumentalmente li esibiscono come merce di scambio, in diaspora e divisi, succubi di organizzazioni e sistemi politici poco democratici e corrotti, attratti da un uso identitario della religione, rinchiusi in un’impotenza che si trasforma in rabbia e qualche volta in violenza.
Basta recarsi in Cisgiordania, dove, rispetto all’inferno di Gaza, la situazione è più “normale”, per respirare l’aria di paura e di disperazione che vi regna. La gente palestinese resiste da decenni all’occupazione, alla segregazione, all’esproprio di terre, alla mancanza di libertà e dei diritti più elementari. Il muro, garanzia di sicurezza per Israele, vergogna e elemento di separazione per i palestinesi, la stringe sempre più in una morsa. La terra viene confiscata, rubata dagli insediamenti sempre più numerosi, dalla ragnatela di strade riservate agli israeliani, dai checkpoint che controllano anche i confini interni zone A, B, C, zone palestinesi, a controllo misto, territori ad esclusivo controllo israeliano. Non esiste la libertà di muoversi da una zona all’altra; serve un permesso rilasciato dai militari, ma anche con il permesso si può essere fermati ad uno degli infiniti checkpoint; e così si perde il lavoro, non si può andare a scuola, non si può raggiungere l’ospedale. Senza un’unità territoriale non rimane nemmeno la speranza di costituire in un futuro uno stato palestinese.
La violenza è da condannare da una parte e dall’altra. Ma certo non si può pretendere sicurezza seminando disperazione, occupando territori altrui, umiliando i palestinesi e costringendoli a vivere in condizioni di occupazione permanente. E tutto questo nell’assoluta indifferenza della comunità internazionale.
Di fronte alla fase di violenza a Gaza ed all’attacco militare israeliano del dicembre scorso, ci siamo ritrovati, ancora una volta, senza parole. In bilico tra l’esigenza di intervenire per dire la nostra rabbia e la nostra tristezza e la constatazione dell’inutilità di ogni voce.
Una cosa è certa. Non servono le manifestazioni di parte. Agli israeliani ed ai palestinesi non servono degli amici che siano tanto più amici degli uni, quanto più nemici degli altri. L’unilateralismo non aiuta a risolvere alcunché. Come peraltro le manifestazioni di parte, che polarizzano solo chi si schiera contro qualcuno e qualcosa. Proprio le manifestazioni che si sono svolte in molte città d’Italia ed in Europa, fanno capire che l’occidente non è pronto ad affrontare seriamente la questione mediorientale. E come potrebbe, se manca un’informazione corretta ed approfondita, se tutto quanto accade subisce la deformazione delle ideologie e delle parti. Siamo convinti che si debba lavorare per, non contro. Per la pace e la giustizia, la libertà e i diritti di tutti per tutti, non contro una o l’altra parte.
Non si tratta di essere indifferenti alle differenze, di non avere un’idea precisa; si tratta di mantenere una posizione di equiprossimità, una solidarietà critica che possa aiutare gli uni e gli altri a mantenere aperto il dialogo. Qui, come là. Solo un atteggiamento di mediazione può aiutare la comunicazione. Ed allora le parole vanno ancora più soppesate e pensate. Per non contribuire, qui e là, al conflitto, per non alimentare lo scontro.
L’appello da fare è quindi questo. La guerra, l’aggressione armata non risolvono nulla, anzi potenziano le rabbie e gli estremismi, da una parte e dall’altra.Va finalmente affrontato con decisione e pacatezza il problema storico della convivenza sulla stessa terra di due popoli. Vanno riconosciute le sofferenze di entrambi i popoli e le ingiustizie, passate e presenti. Vanno riconosciuti i diritti fondamentali di ogni persona che abita Israele e la Palestina, che sta scomparendo a poco a poco dalle cartine geografiche.
Poco noi possiamo fare. Ma almeno questo lo dobbiamo fare. Informarci, sapere cosa accade veramente, ribadire il diritto di tutti ad una vita dignitosa ed in pace.

Daniele Rocchetti

Un momento di riflessione necessario


Dal settembre a dicembre 2008 ho avuto la grazia di partecipare a un corso di Formazione Permanente per Missionari all’Università Salesiana di Roma. Ringrazio il Signore, la mia Delegazione Malawi – Zambia, la Provincia Italiana e naturalmente gli organizzatori salesiani per questa buona possibilità che ho avuto. Dopo 25 anni di sacerdozio e in particolare intraprendendo un nuovo impegno pastorale come parroco della parrocchia di S. Luigi Montfort a Balaka in Malawi, era opportuno un momento intenso di revisione e riflessione e anche di preghiera per fare il punto della situazione e per ripartire con uno sguardo differente, cioè meno egocentrico e più apostolico.
Quali sono stati i punti qualificanti di questa esperienza? Il primo è il rilancio della Lectio Divina nella mia vita. Questo è coinciso anche con la celebrazione del Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa. È stato uno dei primi soggetti del corso conoscere e praticare ancora di più questo metodo di formazione cristiana e missionaria. È stato interessante imbatterci in un testimone di lunga data della Lectio Divina, come don Giorgio Zevini, salesiano, che è stato anche invitato a tenere una meditazione ai Padri del Sinodo. L’impegno che ne deriva per noi missionari e missionarie è di prendere del tempo nella nostra settimana per praticare questa preghiera, ma anche valorizzarla con i cristiani. Nelle piccole comunità della parrocchia di Balaka (circa 200), ma anche delle altre parrocchie, questa esperienza di contatto con la Parola di Dio chiamata ‘Bible sharing’ (condivisione della Parola di Dio) non è nuova, tuttavia è da rinfrescare e rilanciare.
Il secondo punto penso sia stato un invito a rivedere il proprio impegno missionario. Il sacerdote comboniano, p. Danilo Cimitan, forte di una esperienza di circa 30 anni in Mozambico e Brasile, non è stato tanto diplomatico nel metterci lì la domanda a noi missionari e missionarie: “Tu stai lavorando per il Regno di Dio o per il reuccio?”. Il reuccio sarebbe il proprio io, l’individualismo. Di fronte a una domanda del genere uno ha anche il diritto di arrabbiarsi un po’ pensando alle tante cose fatte per gli altri. Magari ci starebbero bene anche dei distinguo, come si usa dire nel politichese o anche ecclesiastichese. Tuttavia è più conveniente lasciar fare alla Parola e lasciarsi interrogare e scoprirsi a servizio del proprio io, del reuccio insomma… Ed è questa l’esperienza che ho cercato di fare e spero di continuare per vivere maggiormente il “Liberos” monfortano della Preghiera Infuocata. In questo contesto il corso ha insistito sulla necessità della direzione spirituale e anche di incontri psicologici. Se per questi ultimi c’è stata la possibilità nella stessa Università che è proprio un’istituzione a servizio dell’educazione, per la direzione spirituale ho avuto la grazia di trovare un aiuto nella stessa comunità che mi accoglieva. Forse ci sono dei direttori spirituali tra i nostri stessi confratelli e nelle nostre stesse comunità, nelle quali siamo maggiormente conosciuti e magari amati.
Il terzo punto qualificante per me è stato offerto dall’attenzione sui destinatari, con delle opportune aperture all’antropologia a servizio della missione e alla conoscenza delle varie religioni, in particolare la Religione Tradizionale Africana. Qui tra gli altri i due operatori che ci hanno aiutato di più sono stati un missionario salesiano che lavora nell’Università di Quito, don Juan Bottasso, e un fratello congolese dell’Urbaniana, Fra Kipoy. Gli antropologi in genere non sono stati teneri con i missionari. Li hanno sempre accusati di sconvolgere il gruppo umano nel quale lavorano. Anche se non possiamo accettare questi inviti a non disturbare con la nostra missione la gente alla quale siamo inviati, in particolare certi gruppi umani con una cultura molto differente, è un bene ed è un omaggio alla Provvidenza conoscere i nostri destinatari e valorizzare la loro cultura. Quale può essere una delle prime regole nell’incontro con una cultura diversa? La prima regola è quella di ascoltare, di conoscere, del silenzio. È il primo passo.
Un altro punto qualificante è stato anche il viaggio in Terra Santa, come conclusione del corso: ripercorrere le strade e i luoghi della prima evangelizzazione di Gesù Cristo, per aggiungere all’ascoltare anche il vedere; vedere e contemplare i luoghi che hanno visto il Redentore, e la sua Madre Maria. Mi diceva un Padre Francescano che vive nella comunità del Santo Sepolcro a Gerusalemme: “Qui si viene a contatto con l’Incarnazione, con la nuda realtà della storia, con una nuda grotta che è quella di Betlemme, con il Golgota e una tomba vuota! Qui si viene interrogati da questa realtà, per rispondere altrettanto con autenticità e schiettezza a quell’inaudito intervento di Dio nella nostra storia”. Come sto rispondendo e come risponderò io a questo intervento di Dio nella vita e nella morte? Mi accorgerò finalmente dell’amore di Dio per me e per i miei fratelli e sorelle, chiunque siano?
Infine penso che un altro punto qualificante sia stato il vivere nella comunità di via Romagna. È la comunità provincializia, ma anche la comunità del Santuario storico dedicato alla Regina dei Cuori. Il mio ringraziamento va alla comunità che mi ha accolto e assistito in quel periodo, e in particolare alla Regina della nostra Compagnia, alla Regina dei Cuori. Portare in quel Santuario l’esperienza che stavo vivendo, gli appelli del Signore e della Chiesa, metterli nel cuore con la preghiera personale e comunitaria, ma anche sentirli attraverso le opere artistiche in specie la scultura della Consacrazione sopra l’altare e le vetrate che illustrano la Vera Devozione di S. Luigi di Montfort, mi aiuta a fare una specie di sintesi di quanto il Signore mi ha dato in questo periodo. La donazione alla Vergine Maria, Regina dei cuori e delle Missioni, mi aiuta a serbare nel cuore la Parola della vita e ad essere nella continuazione della mia missione più povero ed umile. Almeno così spero e affido questo desiderio a Lei. L’anima mia magnifica il Signore.

Padre Luigi Fratus

Apostolo di Maria marzo 2009


È in stampa il numero di marzo dell'Apostolo di Maria