Padre Angelo Pansa è un missionario saveriano bergamasco di 77 anni; di lui si sono occupati a più riprese i media, non solo nazionali. Convinto difensore dei diritti degli Indios e delle straordinarie risorse della Foresta Amazzonica, è stato fatto oggetto più volte di minacce di morte a causa di alcuni progetti la cui realizzazione andava contro gli interessi di potenti multinazionali responsabili di misfatte ambientali perpetrate con forti coperture politiche, e non solo. A fianco degli Indios, con la solidarietà di alcuni organismi internazionali di sviluppo e cooperazione, ha messo in campo iniziative di grande interesse per dar loro una concreta speranza di sopravvivenza e la prospettiva di una autonoma gestione della propria esistenza, sia sul versante del cibo che su quello della cura della salute. La foresta amazzonica ha un patrimonio tale di risorse che, qualora ne fosse garantita la sopravvivenza, fornirebbe alle comunità che la abitano un giusto e dignitoso standard di vita. Padre Angelo si è battuto perché questa ipotesi di sopravvivenza per gli Indios dell’Amazzonia non restasse una semplice utopia ma si trasformasse in un progetto concreto. Ma non è stato facile. Per motivi di sicurezza ha dovuto lasciare il Brasile. Ora si trova in Italia per rimettersi in forma e per prepararsi a vivere una nuova esperienza di “condivisione” con i poveri.
Padre Angelo, come è nata la tua “passione” per la causa missionaria?
La mia passione missionaria, mi è piaciuta l’espressione passione, è più consona alla causa missionaria che non il termine vocazione, è sorta in occasione di un incontro avvenuto nel 1941-1942 a Bergamo, nelle Scuole Elementari di via Angelo Maj. Nella scolaresca alla quale appartenevo un Missionario Saveriano, espulso dalla Cina Comunista, venne a parlarci della sua esperienza di missione, delle difficoltà, della persecuzione ma anche della gioia nel vedere persone che all’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo diventavano cristiani. Ci parlò anche dell’aiuto materiale che offriva ai più bisognosi, e non solo della Parola di Dio. Ricordo che alla fine di quell’ora trascorsa ascoltando e facendo domande, il missionario ci rivolse una domanda a bruciapelo, in modo tale che avessimo a rispondere quasi per istinto, senza pensarci su troppo. E la domande fu questa: “C’è qualcuno tra di voi che se la sentirebbe di tentare di fare lo stesso di ciò che noi abbiamo fatto e che adesso non siamo più in grado di fare?”. In due abbiamo alzato immediatamente la mano, io e Giuseppe Arnoldi, divenuto anche lui missionario saveriano e destinato più tardi alla Missione dell’Indonesia. Da vari anni Padre Giuseppe ha raggiunto la meta finale dell’esistenza terrena. Dopo di noi, alcuni altri, dopo qualche esitazione, hanno anche loro alzato la mano.
Padre Lorenzo Lini, il missionario che ci aveva parlato della missione, ci chiese l’indirizzo di casa e ci disse di avvisare i nostri genitori che sarebbe venuto a trovarci per un colloquio. Dopo tale incontro con la famiglia egli rimase in contatto con noi per vari mesi per poi, dopo l’accordo dei genitori, invitarci a lasciare la famiglia per continuare gli studi nel Seminario dei Missionari Saveriani.
Con il passare degli anni, degli studi, e il continuo contatto con formatori che erano missionari, la vocazione “passione” si consolidò. Arrivarono così di seguito: la Professione Religiosa, poi l’Ordinazione Sacerdotale (nel 1956) e la destinazione con il primo gruppo di Saveriani in Congo (1958), la “traversata” del periodo burrascoso della Rivoluzione Congolese, il richiamo in Italia (1967) ed il “dirottamento” verso la nuova missione in Amazzonia (1967) da cui sono stato nuovamente richiamato lo scorso anno (2008) con la previsione di un ulteriore “dirottamento”, al momento però non so ancora per quale destinazione.
Quali di queste tappe sono state le più importanti?
Ritengo tappe importantissime quelle che hanno cambiato il mio modo di svolgere la “missione”. Nei primi anni, cioè prima dell’Indipendenza del Congo Belga, adottavo lo stile catechetico tradizionale che i Padri Bianchi avevano utilizzato in Africa: 4 anni di catecumenato molto intenso che determinavano il successivo inserimento nella comunità cristiana con il Battesimo e gli altri Sacramenti. Con il sopraggiungere delle prime difficoltà successive alla dichiarazione dell’Indipendenza del Congo (1960) e l’aggravarsi della situazione nei confronti dei non africani, ci si è sentiti in dovere di rimanere vicino alle comunità cristiane per cercare di far fronte a tutta una serie di ingiustizie, di angherie e di violenze (anche estreme) nei confronti della stessa popolazione congolese sia da parte dell’Esercito Regolare, sia da parte delle Truppe Rivoluzionarie Ribelli, sia da parte dei mercenari stranieri venuti in soccorso del Governo Congolese.
Condividendo le condizioni di vita molto difficili della popolazione ci siamo accorti che era questo il vero stile evangelico dell’annuncio. Il detto di Gesù “Sono venuto perché tutti abbiano vita e una vita in pienezza” (non solo vita in abbondanza come a volte è stato malamente tradotto) lo stavamo vivendo anche noi con la gente. Tale testimonianza mostrava che stavamo sforzandoci di mettere in pratica quello che dicevamo a parole.
C’è stata quindi una evoluzione nel tuo modo di fare missione.
Questo modo di vivere la “passione missionaria” ho cercato di riviverlo nella nuova esperienza missionaria in Amazzonia. Ecco perché, convivendo con la popolazione che incontravo, indipendentemente se si trattava di cristiani o non cristiani, di Indios, di “Senza-Terra”, di operai delle miniere, di “schiavi dell’oro” lungo i fiumi, di coloni portati con l’inganno lungo la “Transamazonica” e poi abbandonati alla loro sorte e molte volte espulsi dai loro campi da parte dei grossi latifondisti, la mia preoccupazione era quella di farmi carico con loro dei problemi vitali legati alla sopravvivenza, sia fisica sia culturale in modo da garantire il loro diritto alla “vita in pienezza”.
Evangelizzazione e promozione umana: come hai saputo conciliare queste due priorità nello svolgimento della tua intensa attività missionaria?
Nonostante l’urgenza e la gravità delle situazioni conflittuali, sempre ho trovato fondamentale il momento dell’annuncio esplicito della persona di Gesù Cristo, al quale ho tentato di ispirarmi facendolo “rivivere”, mostrando in pratica come Lui ha vissuto i “Valori del Regno”: Verità, Giustizia, Fraternità, Pace e soprattutto Condivisione. Ed è proprio cercando di testimoniare in modo esistenziale questa Condivisione che, specialmente con i gruppi di Indios con i quali ho vissuto più tempo, credo di essere riuscito a modificare l’opinione che essi avevano del cristiano: l’uomo dalla lingua biforcuta, che non dice mai quello che pensa e non fa mai quello che ha detto.
I media, non solo nazionali, si sono interessati a più riprese delle tue iniziative a favore degli Indios d’Amazzonia. Per quale motivo?
Credo che quello che ha suscitato l’interesse di vari organismi internazionali con i quali sono venuto a contatto, sia il mio impegno per la difesa dei diritti dei poveri, e per aver messo a punto alcuni elementi che ritengo essenziali per uno sviluppo sostenibile e che ho cercato di applicare nella progettazione e realizzazione delle mie iniziative:
- ogni progetto deve essere analizzato e valutato dalla comunità locale, che così si sentirà coinvolta nel processo e assumerà le dovute responsabilità;
- deve svilupparsi in modo tale che nel tempo più breve possibile e porti il gruppo umano all’autonomia nei 3 campi fondamentali: alimentare (includendo l’acqua potabile), sanitario, educazionale (la loro cultura);
- far riscoprire (o fare crescere, dove ancora esiste) il quarto valore essenziale perché la vita sia possibile, e cioè la condivisione che equivale a “Vivere insieme”, o meglio ancora “Respirare insieme”, come gli Indios Bakairi hanno tradotto l’espressione natalizia: “E venne ad abitare tra di noi”: “Viene a respirare con noi”.
-3 elementi sono essenziali: Acqua, Aria, Cibo. I minerali non sono essenziali, anche se necessari o utili. Ecco perché gli Indios non capiscono come si sventri la Terra Madre per prendere quelle “pietre gialle” il cui fumo uccide. Gli Indios dicono: “Se il Grande Spirito avesse pensato che erano essenziali per la vita, le avrebbe appese sui rami degli alberi perché tutti ne potessero usufruire, invece le ha nascoste perché restino dove sono.
Quali progetti per il futuro?
Interessante sarebbe parlare delle tante esperienze maturate negli anni del mio impegno in Amazzonia. Considerato nemico delle potenti multinazionali almeno una decina di volte ho corso seri pericoli di morte. Anche di recente, per essere vissuto e per aver lavorato in terreni inquinati da potenti dosi di diossina, sono stato in coma per una ventina di giorni, salvato da un provvidenziale intervento di un medico che si era specializzato proprio nel reparto infettivi degli Ospedali Riuniti di Bergamo. Progetti per il futuro? Ancora aspetto le proposte della mia Direzione Generale e spero che mi mandino in qualche altra missione, magari in Africa, per “condividere” la mia vita con altri gruppi umani, aiutandoli, perché no, con un secondo progetto di ricostituzione della copertura vegetale nativa abbinata a coltivazione agricola temporanea in qualche villaggio del Mozambico, oppure realizzando qualche miniprogetto di Pozzi d’Acqua, dove ce n’è bisogno.
Cosa ti senti di dire ai lettori di una rivista missionaria?
Oltre al grazie per tutto quello che hanno fatto e stanno facendo per sostenere l’impegno missionario in tante realtà del pianeta, li invito a crescere sempre più nel quarto valore essenziale di cui si parlava sopra? Condividere con altri, vicini o lontani che siano, la propria esperienza di annuncio e dei valori del Regno di Dio, sia nella nostra vita privata che in quella sociale, a cominciare dalla propria famiglia per poi estendersi alla comunità, al paese, e giungere al mondo intero con la crescita della dimensione universale della Missione che Cristo ha affidato a ciascuno e a tutti noi: “Fare del mondo una sola famiglia”. Per gli Indios, la famiglia è il primo, il più piccolo degli individui che “respirano insieme”.
Di Padre Angelo qualcuno ha scritto: “Padre Angelo è fatto così. Tutt’oggi è un uomo che in Brasile trascorre le sue giornate con le mani nella terra, accanto alle popolazioni indigene con cui sta difendendo il coraggioso programma di tutela e di ripiantumazione nella Foresta Amazzonica; ma abbiamo visto che di colpo lo possiamo trovare dall’altra parte del mondo a colloquio con le più alte sfere del Clero italiano, o con le grandi commissioni internazionali per la difesa dell’ambiente. Un uomo pratico, insomma, e insieme un grande stratega”.
Padre Santino Epis
venerdì 6 febbraio 2009
Fare del mondo una sola famiglia
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Rivista Apostolo di Maria
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