di Alfio Mandelli
Per Luigi Maria da Montfort la ricerca e l’acquisto della Sapienza, Gesù Cristo incarnato e crocifisso, follia agli occhi degli uomini, è tutto! Bisogna, allora, che anche noi cerchiamo ardentemente la perla preziosa che è la Sapienza di Dio.
Ma serve silenzio per ascoltare e per ascoltarci, per lasciare emergere desideri e paure perché vi sono beni e beni, desideri e desideri ed occorre essere attenti. I desideri falsi si riferiscono a beni effimeri. Sono desideri interessati, che chiudono su se stessi. Luigi Maria li condensa nel triplice volto della falsa sapienza: l’amore dei beni della terra e la voglia di possedere; l’amore del piacere; l’amore degli onori e della stima.
Con questi desideri la creatura è messa al posto del Creatore.
I veri desideri, al contrario, sono sempre aperti all’altro, gratuiti e disinteressati. Il vero desiderio, per il Montfort è la Sapienza, Dio Creatore!
Il nostro desiderio di Dio e della Sapienza ha sempre bisogno di conversione e di essere ri-ordinato. «Occorre che tale desiderio della Sapienza sia santo e sincero» (AES 182) perché può essere mosso dalla volontà di catturare l’Infinito. Gesù stesso converte il desiderio di chi lo cerca o lo segue: dei primi discepoli (cf Gv 1,38), di Pietro (cf Mt 16,21-25), della madre dei figli di Zebedeo e dei loro amici (cf Mt 20,20-28). Gesù aiuta a cogliere il vero oggetto della ricerca perché c’è un cercare la Sapienza che può essere ambiguo. C’è la ricerca corretta e quella scorretta, quella autentica e quella falsata. Le folle cercano Gesù perché hanno visto i segni che ha compiuto sugli infermi e perché hanno mangiato i pani ma non hanno capito che la vita è entrare in relazione con Lui ed esistere come Lui (cf Gv 6,1ss). Anche Giuda (cf Gv 18,8) e la Maddalena (cf Gv 20,15) cercheranno Gesù, con un esito diverso perché è diverso lo spirito che li muove: dimorare presso di Lui e abbracciarlo, oppure rapirlo e tradirlo.
Gesù converte il nostro desiderio dal suo orizzonte egoistico perché accogliamo e ci lasciamo trasformare dal suo amore. Gesù desidera che noi sappiamo ciò che vogliamo, perché alla fine possiamo volere ciò che Lui stesso intende donarci. Solo allora il suo dono può scendere nella nostra vita!
Su questo cammino veglia la più tenera delle madri, Maria. Si accompagna a noi perché ci apriamo alla Sapienza, proteggendo il nostro cuore dalle luci illusorie e dal falso splendore della sapienza mondana.
Cammina accanto a noi, perché lasciamo crescere il desiderio della Sapienza che sempre sussurra all’orecchio del nostro cuore dolcissime parole d’amore.
Agisce in noi perché restiamo «fedeli a Gesù Cristo, Sapienza eterna ed incarnata, fuori del quale c’è solo smarrimento, menzogna e morte».
lunedì 23 marzo 2009
Un desiderio santo e sincero
Apparteniamo a Gesù. Siamo schiavi?
di Abramo Belotti
“Noi non apparteniamo più a noi stessi, ma totalmente a Lui”. È il contenuto della seconda verità. Il Montfort, lo abbiamo già ricordato, si è avvalso di molti simboli per illustrare la nostra relazione con Cristo, ricorrendo a pagine evangeliche. I suoi richiami sono agili ed efficaci. Non si attarda più di tanto su di essi, ad eccezione del simbolo più impegnativo e più problematico per noi: la schiavitù. L’aveva già enunciato all’inizio del numero 68 “noi siamo cosa totalmente sua, come suoi membri e come schiavi che egli ha comprati... a prezzo cioè di tutto il suo sangue.” Scrive pure che siamo “suoi membri”. Sullo sfondo di questa tesi opera il simbolo tradizionale che paragona una società, anche la chiesa, ad un corpo: noi siamo membra di questo corpo. Fino qui il simbolo abituale. Da parte cristiana si aggiunge: Cristo è il suo capo.
Schiavi di Cristo?
La schiavitù è una condizione diffusa e pacifica al tempo della stesura del Nuovo Testamento. Il Montfort attinge a questa tradizione. Avverte però l’esigenza di precisare la portata dei termini usati, schiavo e servo, perché il quadro sociale della sua epoca era logicamente mutato rispetto a quello in cui erano sorte le prime comunità cristiane con i relativi scritti. Distingue il servo dallo schiavo, una distinzione necessaria, perché la servitù “comune tra i cristiani”, non esisteva nel mondo antico. Ne è consapevole e lo dice: “non c’erano allora servi come quelli di oggi, dato che i padroni erano serviti solo da schiavi o da liberti.” (VD 72) Analizza la schiavitù e ne individua tre tipi: schiavitù di natura, forzata, e volontaria. L’applica al nostro rapporto con Dio: tutti siamo schiavi di Dio per natura; i demoni e i dannati sono schiavi forzati; i giusti e i santi lo sono per scelta. Stabilisce un confronto tra le relazioni che scaturiscono dalla schiavitù e dal servizio e giunge a delle affermazioni che, se corrispondono a situazioni di fatto nella storia della schiavitù, non possono non suscitare, come minimo, imbarazzo quando ci si serve di esse per definire il nostro rapporto con Cristo e la Madre sua.
Insistenza opportuna?
Il Montfort per illustrare la schiavitù ricorre ad affermazioni del tipo: “Con la schiavitù, invece, uno...deve servire il padrone senza pretendere salario o ricompensa alcuna, quasi fosse una delle sue bestie sulle quali egli ha diritto di vita e di morte” (VD 69).
Non ci si sente certamente entusiasti e a proprio agio con questi accostamenti. Avranno pure un riscontro storico, ma la reazione nostra è più di disgusto e di ripulsa che di attenzione interessata. Viene spontaneo chiedersi: val la pena insistere con un linguaggio così truculento?
Schiavitù e amore
D’altra parte l’espressione: schiavo d’amore conserva un suo fascino. Schiavitù e amore sono termini che indicano un’appartenenza suprema tra persone, e forse per questo si richiamano. In realtà però presentano situazioni del tutto opposte. Mentre l’amore infatti determina una “subordinazione”, frutto di libertà, (sono io che decido di vivere questo tipo di relazione) la schiavitù invece si fonda e si nutre della totale negazione di libertà. (Io subisco, non decido la mia condizione). Si è schiavi quando non si è liberi. Si può amare invece solo quando si è liberi.
La schiavitù attinge il suo significato originario da un rapporto di dominio di una persona sull’altra; non esprime per nulla reciprocità e si realizza “negando” l’altra persona.
Lo schiavo viene percepito come una “cosa”, un oggetto sul quale si esercita il diritto di proprietà. Apparentemente è il modo di appartenenza più radicale che si possa realizzare. Sottolineo: apparentemente, perché di fatto si consuma il massimo della lontananza e della estraneità.
Potremmo dire che la schiavitù ha solo la possibilità di disporre di prestazioni esterne. Non raggiunge l’aspetto più prezioso della persona. Più si vuole “dominare” con la forza e la costrizione, più la relazione umana si impoverisce fino a scomparire. Questa ha la sua origine nella libertà che fiorisce nell’amore. Dire amore è dire due libertà che si incontrano e si donano. È vero: più grande è l’amore, più radicale è l’appartenenza. Ma presuppone sempre libertà e non è dipendenza.
Schiavitù e amore si richiamano anche per un altro motivo: sono frutto di un’iniziativa esterna alla persona; ma di natura diversa.
Lo schiavo subisce una violenza. L’innamorato invece accoglie liberamente una chiamata e la sua risposta è il risultato di una libera e gioiosa adesione. L’amore è tanto più vero quanto più è libero da condizionamenti.
È possibile allora usare l’espressione: schiavo d’amore? Sì, ma nella consapevolezza che, assieme all’aspetto che li avvicina e sembra imparentarli, cioè l’appartenenza totale, sono il risultato di due esperienze opposte: forzatura o libera scelta. Da una parte una forza che mortifica e costringe, dall’altra un invito e un’offerta che affascinano.
“Schiavi, ma alla scuola di Maria.
Un amore offerto da Dio in Cristo, e un amore accolto nello Spirito conduce alla risposta di una resa libera e incondizionata. Apparteniamo a Gesù e a Maria, non dimenticando il loro ruolo diverso, perché ci hanno amato radicalmente: cioè hanno posto le premesse che rendono possibile una libera adesione a questa attenzione amorosa. Solo in questa cornice ci si può vantare di essere “schiavi”, alla scuola della “serva del Signore”, Maria.
Sulle sue ginocchia la gloria del Signore
di Valentino Bosco
Tempo fa mi imbattei in un libro dal titolo ‘Le Pietà nell’arte’. Fra le tante che vi erano riportate, alcune attirarono la mia attenzione per la loro originalità. In questo articolo intendo riflettere su una di queste ‘Pietà’, firmata da uno scarabocchio che potrebbe essere interpretato come S. Scarti e denominata: “Sulle sue ginocchia la gloria del Signore’.
In positura offertoriale
La scena è collocata ai piedi di una croce folgorante avviata verso la dissolvenza, come se venisse risucchiata dalla Gloria di Dio. Del tutto originale è l’atteggiamento della Madonna, che tiene sulle ginocchia il Cristo morto con la testa che tende ad abbandonarsi sul petto della madre. Il capo di Maria è leggermente rialzato. L’interesse di Maria sembra rivolto non al corpo del figlio ma all’umanità, che le sta idealmente davanti. Gli occhi appaiono chiaramente interlocutori, come se fossero impegnati nel dialogo con qualcuno. Le braccia di Maria esprimono lo sforzo di sostenere il Cristo morto, nell’intento di presentarlo e consegnarlo. È un atteggiamento, quello della Vergine, che impegna l’intera persona, protesa in avanti, nell’intenzione di esternare con gesti attivi e intraprendenti il sentimento che domina in quel momento il suo animo: consegnare al mondo non un Gesù cadavere e sconfitto, ma un Gesù Vivo, Vittorioso, Glorioso, già Signore della storia.
Maria, abituata com’era a cogliere i fatti in profondità e a leggere gli eventi nel loro vero significato, dando ad essi la giusta dimensione e la giusta collocazione, fa capire di aver inteso il senso di quella tragedia e tenta di esprimerlo nel gesto, artisticamente ben delineato, di consegnare Gesù, prossimo alla risurrezione, quale salvatore del mondo per il quale egli era venuto.
“Bella nella passione di Cristo”
La migliore interpretazione del dipinto in questione l’ho trovato nell’inno cristologico di S. Paolo. “Il quale ( Cristo ) pur essendo di natura divina - non considerò un tesoro geloso - la sua uguaglianza con Dio - ma spogliò se stesso - assumendo la condizione di servo - e divenendo simile agli uomini - apparso in forma umana umiliò se stesso – facendosi obbediente fino alla morte – e alla morte di croce. - Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato un nome – che è al di sopra di ogni altro nome; - perché nel nome di Gesù – ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sottoterra; - e ogni lingua proclami che Gesù è il Signore – a gloria di Dio Padre” (Fil 2,5-11). Una tesi paolina che ricorre sovente nelle lettere dell’Apostolo e che trova riscontro nel Vangelo di S. Giovanni, per il quale la glorificazione di Gesù avvenne sulla croce e grazie alla croce. Nacque allo spirare del Cristo come risposta compiacente e riconoscente del Padre nei confronti di un Figlio che senza omettere neppure un iota, portò a compimento la missione affidatagli, compreso l’ultimo atto drammatico della passione e morte. In questa ottica Maria si era collocata e progressivamente vi si era addentrata, riuscendo ad adeguarsi talmente al pensiero di Dio da considerare lo scandalo della croce come il definitivo trionfo di Gesù sul male. Possiamo allora capire il perchè la croce veniva sovente chiamata dai Padri della Chiesa ‘trono’, ‘vessillo’, ‘trofeo’… addirittura ‘culla della salvezza’, ‘talamo’ su cui si sono consumate le nozze tra Cristo e la sua Chiesa. L’iconografia bizantina amava dipingere il Cristo in croce con gli occhi aperti, vestito con paludamenti regali, incoronato da una preziosa e gemmata. “Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me”.
L’innalzamento sulla croce per il ‘sentire’ teologico, spirituale e artistico degli orientali in genere, significava per Gesù salire gli ultimi gradini che ancora lo separavano dal trono, percorrere l’ultimo tratto di pista che ancora lo teneva lontano dalla vittoria e dall’incoronazione finale. Per fratelli orientali la croce di Cristo non poteva essere che gloriosa, a differenza di noi occidentali che per troppo tempo, specie a livello di devozione popolare, abbiamo evidenziato della croce l’aspetto dolorifico. Se per noi la ‘Pieta’ evidenziava l’aspetto drammatico e dolente del mistero della redenzione, per loro era già parte della dimensione pasquale. Una ‘Pietà’ pasquale! L’ inno dei vespri della festa dell’Esaltazione del Croce canta: “Ecco il vessillo della croce, mistero di morte di gloria… O albero fecondo e glorioso, ornato di un manto regale, talamo, trono e altare, il corpo di Cristo Signore… Bilancia del grande riscatto, che tolse la preda all’inferno… O croce unica speranza…”. Una glorificazione che rimarrà ‘costretta’ nella Kenosi ancora per tre giorni, per poi esplodere in tutto il suo fulgore e in tutta la sua potenza il giorno della Pasqua, allorché la pietra del sepolcro nel quale era rinchiuso ‘il crocifisso’, verrà definitivamente ribaltata. Un evento che Maria per fede già attendeva nel suo intimo: quella fede che non venne mai meno, fiamma che, unica fra tutti i seguaci di Gesù, continuò ad ardere vigorosa e luminosa, nonostante che la bufera dell’accaduto soffiasse in direzione contraria. La ‘Donna del terzo giorno’ la chiama T. Bello.
Mentre l’occhio umano vedeva solo i segni della Kenosi, l’occhio di Maria, il cui cristallino umano veniva potenziato da quello della fede, si spingeva in avanti. Tanto in avanti da oltrepassare il ‘dato di fatto’, che è morte e putrefazione, intravedendo, come abbiamo già accennato, il risvolto conclusivo e risolutivo di quella tragedia la gloria del Cristo risorto, l’Agnello pasquale, la sorgente della vita, l’albero della vita. Invece di versare lacrime e di innalzare lamenti pur legittimi ad una madre, la Vergine avrebbe voluto proclamare ‘a gran voce’ agli astanti: “Ecco qui l’Agnello di Dio che ha portato su di sé i peccati del mondo” (Gv 1,29), a Lui la gloria, la potenza, l’onore”. Una ‘Pietà’ vista in quest’ottica appare addirittura bella, come proclama un prefazio mariano: “Bella nella passione del Cristo, imporporata dal suo sangue, come mite agnella unita al sacrificio del mitissimo agnello, insignita di una nuova missione. Bella nella risurrezione del Signore, con il quale regna gloriosa, partecipe del suo trionfo”.
L'annunciazione alla Vergine
di Alberto Valentini
La missione di Maria è presentata mediante tre verbi di cui ella è il soggetto unico: concepirai-partorirai-chiamerai. Se i primi due verbi si coniugano al femminile, l’imposizione del nome non è di per sé compito materno. Diversamente da Lc 1,13 (cf. Mt 1,21), è lei che attribuisce il nome (come Is 7,14): l’averlo sottolineato è un accenno alla maternità verginale.
Il compito della Madre
Il nome da dare al bambino è Gesù. Luca - a differenza di Mt 1,21 - non ne spiega il significato salvifico: lo farà più tardi (2,11; 1,69.71; 2,30). Il v. 31 presenta la maternità messianica ed è formulato sulla falsariga di Is 7,14.
I vv. 32-33 presentano la figura del Messia davidico. Il confronto con il precursore (1,15ss) fa emergere la grandezza ed unicità del figlio della Vergine, il quale “sarà grande” e verrà chiamato “figlio dell’Altissimo”. Questo titolo non indica direttamente la divinità: è l’appellativo classico del re davidico, come appare in 2Sam 7,14; Sal 2,7; 89,27. Le formule “figlio di Dio” o “figlio dell’Altissimo”, applicate al re, indicano la vicinanza e la particolare protezione del Dio dell’alleanza sulla sua persona e le sue imprese. Il seguito della descrizione presenta la regalità davidico-messianica del nascituro, sempre sullo sfondo dell’oracolo di Natan (cf. 2Sam 7,14): il Signore lo porrà sul trono di Davide e garantirà la stabilità del suo regno sulla casa di Giacobbe.
Non è ancora espressa la divinità del bambino né l’universalità del suo dominio che sarà proclamata da Simeone (cf. Lc 2,32). Il messaggio angelico sarà approfondito ed esplicitato nei vv. 35ss. A tale chiarimento è finalizzata l’interrogazione di Maria (v. 34), che si frappone alle parole dell’angelo.
L’affinità tra la domanda della Vergine e l’obiezione di Zaccaria è solo apparente. In realtà l’atteggiamento dei due personaggi è radicalmente diverso, come risulta non solo dal fiat di Maria - proclamata beata per la sua fede (cf. Lc 1,45), a differenza di Zaccaria punito per la sua incredulità - ma dal tenore e dall’oggetto delle due domande. Mentre il sacerdote alle parole di Gabriele, che hanno già rivelato l’evento, obietta con scetticismo: «da che cosa saprò questo?» (Lc 1,18), Maria non mette in discussione la verità del messaggio, ma semplicemente interroga circa il modo del suo compimento: “come sarà questo?” (Lc 1,34). La domanda della Vergine serve a introdurre una rivelazione più piena del mistero di Gesù e ad esplicitare la modalità della sua particolarissima situazione di vergine chiamata ad essere madre. Ciò avviene puntualmente nella risposta dell’angelo (v. 35), dove è in primo piano lo Spirito-Potenza dell’Altissimo, il quale interverrà sulla vergine.
Nel v.35 le espressioni Spirito santo e Potenza dell’Altissimo (cf. At 10,38) evocano lo Pneuma creatore aleggiante sulle acque primordiali (cf. Gen 1,2) e atteso per la fine dei tempi come forza proveniente dall’Alto (cf. Is 32,15). La Potenza dell’Altissimo adombrerà la Vergine, come la nube che conteneva la šekînâ (cf. Es 40,34; Nm 9,18.22; 10,34), presenza efficace di Dio in mezzo al suo popolo. Ad opera dello Spirito e della sua Potenza si realizza dunque una nuova creazione: il bambino sarà di fatto totalmente “santo”, Figlio di Dio. Del figlio di Zaccaria, si era detto che sarebbe stato ripieno di Spirito santo fin dal seno materno (1,15), ma non che sarebbe stato generato per opera dello Spirito. Inoltre il v. 35 presenta una novità: lo Spirito discenderà non sul Messia, ma sulla madre vergine, rendendo santa la radice e il germoglio che da essa spunterà (cf. Is 11,1s).
La rivelazione del v. 35 è spiegabile a partire dalle prime formulazioni cristologiche neotestamentarie, fondate sulla risurrezione di Cristo (cf. At 13,32s; 2,32-36). Nell’Annunciazione, pertanto, troviamo una cristologia messianico-davidica in linea con le attese d’Israele e una cristologia neotestamentaria elaborata alla luce dell’evento pasquale (cf Rm 1,3-4).
A conferma del mistero della nascita del Figlio di Dio l’angelo addita alla Vergine la maternità di Elisabetta e le ripete quanto un giorno aveva assicurato ad Abramo (cf. Gen 18,14), che, cioè, nulla è impossibile a Dio (v. 37). Gabriele evoca il personaggio per la cui fede ha preso avvio la storia d’Israele, e nella cui discendenza sarebbero state benedette tutte le stirpi della terra. Ora che tale promessa di benedizione sta per compiersi è necessaria una fede simile, anzi superiore. L’Antico Testamento inizia con la fede di un uomo segnato dagli anni, la pienezza dei tempi si inaugura con l’obbediente adesione di una giovane donna.
La Risposta della Vergine
Giunge puntuale e generosa la risposta della Vergine: “Ecco la serva del Signore: avvenga a me secondo la tua parola” (Lc 1,38). Il sì di Maria è il punto di arrivo di un non facile itinerario di accoglienza del disegno di Dio, che si articola in tre fasi, come tre sono gli interventi dell’angelo. Nella risposta di Maria sono evidenti due parti. La prima («ecco la serva del Signore») è un’espressione quasi stereotipa per il costume orientale: proclamandosi serva, ella dichiara certamente la sua povertà davanti a Dio, ma anche la piena disponibilità a compiere quanto Egli ha stabilito. Tale disposizione interiore prepara la seconda parte della risposta, nella quale la Vergine non solo accetta, ma auspica («avvenga di me!») che nella sua vita si compia la Parola di Dio in tutte le sue virtualità. Il commento più pertinente a tali parole si ha nell’esclamazione di Elisabetta: «Beata colei che ha creduto che ci sarà un compimento alle cose che le sono state dette - parole sempre attuali ed efficaci - da parte del Signore».
Aiutiamo le vocazioni monfortane
di Angelo Maffeis
Il mese scorso ci eravamo impegnati per i giovani padri malgasci di Tsiramandroso, cercando di aiutarli a costruire due stanzette e garantire loro un’abitazione decente. Devo farvi sapere che la “risposta” è stata veramente generosa, malgrado la “crisi” che si fa sentire anche da noi. Questo, per me, è segno della grande simpatia che accompagna non solo le nostre missioni in genere ma specialmente i giovani missionari locali, che sono poi il futuro delle loro Chiese.
È un’allegria costatare che le giovani entità missionarie pur in mezzo a mille difficoltà crescono poco a poco. Il seme gettato dalla generosità, dai sacrifici e dalla vita donata di tanti missionari italiani sta dando frutto.
Mi permetto di offrire a voi, affezionati lettori dell’Apostolo una veloce panoramica della situazione “vocazionale” delle nostre missioni.
In Madagascar ci sono attualmente: 8 Prepostulanti; 12 Postulanti e 8 Scolastici (28 in totale).
In Malawi, Zambia e Congo ci sono: 10 Prepostulanti; 8 Postulanti e 4 Scolastici (22 in totale).
In Perù e Brasile ci sono: 12 Prepostulanti; 18 Postulanti; 4 Novizi e 8 Scolastici (42 in totale).
Le “somme” sono presto fatte. 92 giovani che, al momento, si preparano ad essere missionari monfortani.
I Prepostulanti sono quelli che hanno davanti un anno di riflessione e studi generici per conoscere meglio la loro vocazione e la famiglia monfortana. I Postulanti sono quei giovani che hanno fatto il primo serio discernimento della loro vocazione e studiano filosofia, preparandosi ad entrare nel noviziato. Gli Scolastici sono i giovani religiosi, con voti temporanei, usciti dal Noviziato che studiano teologia e sono prossimi alla loro Professione Perpetua e alla loro Ordinazione.
Come ben sa chi ha una famiglia alle spalle, gli studi, il vitto e l’alloggio pesano sempre di più sui bilanci annuali. Vi assicuriamo che i nostri giovani cucinano da soli, lavano la loro biancheria e la stirano, tengono puliti i loro ambienti. Questi ragazzi cercano di evitare qualsiasi spesa non strettamente necessaria e allo stesso tempo si abituano all’autosufficienza, che d’altronde avevano già appreso nelle loro famiglie d’origine, in genere molto modeste.
Malgrado questo, le spese necessarie, specialmente di studio, ci sono eccome!
Come tutti gli anni ci facciamo quindi portavoce di questa necessità, sicuri che, come sempre, saprete dare una mano ai nostri giovani seminaristi d’oltre mare.
Curiosa la vita! La preghiera del nostro fondatore era tutto “spirito” e tutto “fuoco”, un esempio ci è dato da quella che chiedeva missionari a Maria: “Ti chiedo… uomini tutto fuoco… che per amore vadano dovunque”. Ebbene a voi cari amici rivolgiamo una preghiera così, perché con il vostro aiuto la richiesta del Santo di Montfort diventi una realtà concreta.
Grazie anticipate anche a nome di tutti i nostri giovani aspiranti missionari dell’Africa e dell’America Latina!
Phalula un cammino di fede
di Silverio Picasso
L’esperienza nella missione di Phalula, in Malawi, da padre Giancarlo Palazzini, è stata anche quest’anno entusiasmante; un altro percorso meraviglioso per me e per gli amici con cui ho condiviso il cammino in quei giorni.
Il gruppo di amici era formato da due coppie: i coniugi Anna e Gianni Passera e i coniugi Rosa e Brunaldo Mologni.Per questi ultimi era la loro prima volta in Malawi, ma dopo poche ore sembravano che ci fossero sempre stati!
Arrivati a Lilongwe, ad accoglierci c’era Joey. È stato bello per me rivedere all’aeroporto l’amico che a settembre dell’anno precedente mi aveva dato il suo abbraccio un arrivederci. Il nostro stato d’animo ora era diverso! A Phalula abbiamo rivisto padre Giancarlo e tutti gli altri che lo aiutano nella missione. In questi momenti le parole fanno fatica ad uscire per l’emozione, lasciando spazio ai sorrisi, alle lacrime, gli sguardi, e il cuore continua a raccogliere ogni meraviglia negli abbracci.
Entrando nella mia stanza, la prima cosa che ho rivisto è stata la bicicletta del padre appoggiata alla scrivania, con gomme nuove e copertoni molto durevoli. Sulla scrivania c’era la chiave che mi avrebbe permesso di uscire fuori dalla missione al mattino presto per avvolgermi nei colori dell’aurora. Padre Palazzini aveva pensato per me ad ogni cosa! Nel pomeriggio dello stesso giorno del nostro arrivo ci ha portato a vedere i due cantieri in due villaggi, dove si edificavano le chiese. A Malipango e l’altra a Mounekera, c’era un terzo cantiere dove si facevano lavori di ristrutturazione della scuola di Phalula.
Riabbracciare gli stessi operai dell’anno scorso con cui avevo lavorato per la costruzione della scuola di Kambewe e della chiesa di M’Gwedeza è stata un’altra gioia, anche perché anche quest’anno avrei lavorato con loro.
Rosa e Brunaldo per la prima volta incontravano l’Africa, i villaggi e le loro emozioni si scioglievano in sorrisi sui visi che erano in comunione con noi! Conservo sempre lo medesimo stupore della prima volta che ho visto Phalula e questo si trasforma in incanto, in quell’immensa bellezza che mi affascina. - Se non avessi in me questa meraviglia sarei arido e non riuscirei a scrivere giorno per giorno,nel periodo che sono a Phalula, poesie su quello che osservo e contemplo.
Al tramonto, accompagnati da tantissimi bambini,siamo andati al baobab, che sarebbe poi diventato la nostra meta, il punto d’incontro per i successivi tramonti. Durante il periodo che abbiamo trascorso a Phalula,il nostro rapporto d’amicizia ci dava l’opportunità di confrontarci e di cercare sempre nuove soluzioni, quando c’erano problemi nel lavoro che si stava svolgendo.
La giornata iniziava con la mia “uscita” al mattino presto per andare al baobab. L’ho sempre fatto, per tutti i giorni che sono stato a Phalula, per sentire in me quella meraviglia e incanto che sorgeva come il sole ed accogliere ogni bellezza come dono di Dio! Quest’anno ho avuto come compagnia Gianni nel cammino e facevamo i primi incontri con chi andava al mercato, nei campi, con i bambini che si recavano lavorare prima dì andare a scuola.
Poi ci riunivamo tutti nella piccola cappella per recitare le Lodi insieme a padre Giancarlo che precedentemente aveva celebrato la prima S. Messa nella chiesa di Phalula. Dopo colazione ciascuno aveva il suo lavoro da compiere.: Gianni e Brunaldo lavoravano nella falegnameria,oppure svolgevano quei lavori per cui serviva la loro esperienza lavorativa; Anna e Rosa si sono impegnate moltissimo con i bambini,le donne e in cucina, mentre io prendevo la bicicletta e andavo una settimana a Mounekera ed una settimana a Malipango affinché i due gruppi di lavoro non avevano tra loro gelosie, rimanendo a lavorare fino al pomeriggio, prima che il sole tramontasse.
I primi giorni facevo un po’ fatica a percorrere la strada e le piste sabbiose,con buche e sterpi, ma dopo pochi giorni non c’erano più problemi, anche perché avevo una bicicletta con copertoni molto resistenti. Durante quei percorsi in mezzo alla savana, i bambini abbandonavano il campo dove stavano lavorando e mi chiedevano continuamente caramelle,ma anche quelli che andavano a scuola,per non parlare degli adulti,anziani e di quelli che lavoravano con me!
Quando ritornavo a Phalula, Rosa,Anna,Gianni e Brunaldo mi aspettavano per andare tutti insieme con i bambini al “nostro amico” baobab. Si giocava, si cantava,c’era un’allegria,una gioia che coinvolgeva tutti anche gli adulti che si stupivano di quanti bambini erano con noi,anche perché vedevano altre persone e non il solito”Picasso”. Brunaldo era quello che aveva in mente più scherzi da compiere e veniva subito imitato.
Alla sera ci si riuniva con padre Giancarlo nella cappella, si recitava il S. Rosario i Vespri. Si pregava e in quel momento di condivisione,davamo un significato al nostro cammino nella compassione, nella nostra comunione,in quel percorso di fede a Phalula, grazie a padre Palazzini.
Alla domenica c’erano le Messe nei vari villaggi, sempre diversi e poi quest’anno c’è stata la benedizione della chiesa di M’Gwedeza, presieduta dal vescovo Mons. Alessandro Pagani. Anche quest’anno,ma ogni volta è sempre bello ed emozionante, per quello che si vede, Padre Palazzini ci ha portato al parco di Liwonde. Quest’anno per la prima volta ho visto le aquile, con il loro diadema bianco,regale che avvolgeva il loro collo.
Nel periodo che sono rimasto da solo, per il viaggio premio ai catechisti cui sono stato invitato, senza aver nessun merito ma solo grazie a padre Giancarlo, siamo andati alle sponde del lago,dopo Lilongwe, a Nkata Bay!
È stato un viaggio meraviglioso, che mi ha permesso di conoscere un altro aspetto di questa terra. Ad esempio dal punto di vista paesaggistico, cambia totalmente; non ci sono più i baobab, ma palme specialmente vicino alle sponde del lago,non vi sono le acacie,ma i bambù. È il lago che mi ha donato una delle più belle albe che ho visto in Malawi e non solo. All’alba il sole al suo sorgere accarezzava il lago, donando un riflesso multicolore alla sua superficie. I colori si stemperavano nell’acqua,ondeggiando in un tremore in strisce, per poi raccogliersi in una sola,che partiva dall’orizzonte per arrivare alla battigia. Sembrava che fosse sabbia finissima,ora rossa,arancio, rosa con striature viola, tonalità che si mescolavano,si fondevano, sciogliendosi si amalgamavano in quei colori nell’incanto, nella magia ed io mi struggevo di dolcezza che scendeva a poco a poco in me,come se un pittore avesse ”lavato” la sua tavolozza di colori nel lago e nel mio animo. Quelle tinte poi si allargavano sempre di più,fino a prendere quella solita colorazione bianca lucente di quando il sole è in alto.
Non mi sono perso un attimo di quella meraviglia e riguardando ora le foto ritrovo quell’incanto che mi ha donato una profonda commozione. La S. Messa celebrata da padre Palazzini davanti al lago, con quel sole che un attimo prima aveva recitato per me,mi faceva comprendere di quanta armonia il buon Dio ci dona e quante cose meravigliose ha fatto per noi,basta saperle accogliere ed io che cosa potevo desiderare di più in quel momento?
Al sabato dedicavo la giornata per andare in altri villaggi. Sono stato a Kacepatsonga,dove forse si costruirà un’altra scuola. Sono ritornato a N’ziza, nella scuola di Kambewe, dove manca solamente il tetto,a Namingadzi,in quella bellissima scuola che si trova su un collina davanti alla chiesa MTIMA WOYERA,ma ritornavo spesso a M’gwedeza,per il meraviglioso paesaggio che si perdeva nella valle dei baobab, come lo denominata la prima volta che l’avevo vista, e poi ora c’è la chiesa,per me la più bella di quelle edificate da padre Giancarlo. Ero presente quando si è deciso dove farla e soprattutto durante la sua costruzione,quindi ho meravigliosi ricordi di quei giorni.
Durante questi percorsi in bicicletta c’erano incontri con persone che non mi vedevano più ed io li spiegavo il motivo,ma che non mi ero dimenticato di loro. Nel pomeriggio sempre di sabato,a piedi andavo a Chilobwe,alla chiesa costruita nel 2004, in quell’estate era iniziata la mia esperienza a Phalula e durante i lavori ho conosciuto l’Amico Damiano e la sua generosità d’animo. Mi soffermavo davanti alla chiesa,lasciando che lo splendore e le emozioni entrassero nel mio cuore, da lontano sentivo le grida di chi assisteva alla partita di calcio e quando incontravo qualcuno che era abituato a vedermi in bicicletta alla sua domanda rispondevo in chichewa: “Iero sindikupalasa,koma ndi kuyenda pansi” (oggi non pedalo ma cammino) e ridevano per il mio chichewa!
Alla fine di settembre quando sono partito avevo la stessa tristezza,malinconia dei miei cari amici che erano partiti prima, le lacrime che non abbiamo saputo trattenere,mescolate a sorrisi e ringraziamenti di riconoscenza nei confronti di padre Giancarlo,erano il nostro arrivederci da Phalula.
Tutte le volte che arrivo nella missione di padre Palazzini ho la certezza di vivere un’esperienza meravigliosa e quando ritorno a casa, posseggo ancora nell’animo la meraviglia di quello che ho vissuto e l’affetto dei padri monfortani, con la speranza di aver lasciato delle buone impronte, senza mai dimenticare ciò che ho ricevuto in un sorriso!
Balaka Orphans Care
di Silvia Daminelli
Eccoci finalmente… stiamo arrivando a Toleza, uno dei centri a cui facciamo visita dove si radunano gli orfani di cinque villaggi per la distribuzione dei pacchi di Natale e del consueto denaro mensile, il sole è caldissimo ed è quasi mezzogiorno. È la stagione delle piogge e i campi sono rigogliosi, il “chimanga” è già alto e tutto è verde, si ha come l’impressione che tutto vada per il meglio e che il cibo sia abbondante come non mai ma forse è solo un’illusione…
Il camion dietro di noi, carico dei regali per i nostri orfani, non si vede ancora ed Ethel (la responsabile dell’Orphans Care di Balaka) comincia ad esprimere la sua preoccupazione: “Abbiamo fatto tardi e i bambini ci staranno aspettando da ore, saranno tutti accalcati sotto ai pochi alberi in attesa. Preparatevi perché purtroppo non sarà una grande festa quest’anno, la fame si è fatta sentire molto prima del previsto. Le scorte di granoturco sono terminate a causa dell’alluvione che ha colpito diversi villaggi l’anno passato e vedrete che i bambini arriveranno con il sacchettino nei pantaloni per correre a comprare il “chimanga” appena avremo dato loro il regalo di Natale ed il mensile”.
Beh, non è proprio ciò che ci eravamo prefigurate io ed Elisabetta ma siamo qui per portare testimonianza di tutto ciò in Italia e che possiamo fare se non prender parte a questa sofferenza? Arriviamo finalmente al villaggio e una folla di bambini, accalcata sotto gli alberi, ci osserva con un’espressione che oserei definire delusa e quasi arrabbiata. “Stanno aspettando il camion con i pacchi di Natale e finchè non lo vedranno non esprimeranno la loro gioia!” ci spiega Ethel rispondendo alle nostre facce interrogative, “eccolo sta arrivando…. lo vedete?”.
Effettivamente come lo intravedono, i bambini si alzano e quasi ci assaltano senza lasciarci scendere dalla macchina cantando e ballando il benvenuto nonostante il caldo svenevole e nonostante le loro facce portassero i segni della fame. Sono così tanti che sembra quasi impossibile che il progetto riesca a sostenere una quantità tale di orfani; “eppure in questo villaggio ce ne sono solo un quinto del totale”, mi ricorda Felix (collaboratore dell’Orphans Care).
E già ha ragione, sono quasi cinque mila ormai. Così tra canti e balli inizia la cerimonia di distribuzione del tanto atteso regalo di Natale: zainetto con materiale scolastico, zucchero, sale, sapone e altri beni essenziali. Tuttavia prima di cominciare Ethel raduna bambini e genitori esprimendo il suo pensiero di fine anno e di augurio per il Natale: “Carissimi, l’anno scolastico si è appena concluso e il Natale è alle porte. Sappiamo bene che tanti di voi ancora non sono stati promossi, nonostante le possibilità che il progetto vi da sostenendo la vostra formazione scolastica che altri ragazzi non hanno. Vorrei quindi esortarvi, in vista del nuovo anno scolastico, a cercare di superare ciò che ancora vi blocca nel perseguire gli obiettivi importanti della vostra vita come la vostra scolarizzazione. Tutti devono andare a scuola e siete perfettamente consapevoli che questo è uno dei motivi per cui ricevete il sostegno a distanza, è un’opportunità che vi viene data e fareste bene a non sprecarla”.
Le parole di Ethel risuonano piuttosto significative in vista del nuovo anno scolastico in quanto il progetto di sostegno a distanza non vuole essere un semplice contributo economico ma anche un appoggio non indifferente alla famiglia per il pagamento delle tasse scolastiche che pesano enormemente sull’economia familiare, specialmente quelle della scuola secondaria. Molti orfani hanno la possibilità di frequentare la scuola secondaria proprio perché fanno parte del progetto ed il fatto che ci sia un alto tasso d’insuccesso scolastico o che ad un certo punto decidano di interrompere la frequenza per dedicarsi ad altro o per sposarsi è molto indicativo. Perché dovrebbero farlo?
Le ragioni purtroppo sono molte, ciò che incide maggiormente è la condizione di povertà in cui la gente vive e che spesso e volentieri costringe i ragazzi a cercare espedienti per sopravvivere e allo stesso tempo mantenere la famiglia rimasta senza i suoi membri più attivi a causa dell’Aids. Così la scelta di emigrare in città in cerca di lavoro o la decisione di affrontare il matrimonio come soluzione per rendersi indipendenti dalla famiglia, quasi sempre indotto da una gravidanza inattesa. Scelte che permettono loro di fuoriuscire dal progetto e non sentirsi più obbligati a frequentare la scuola e scelte che talvolta purtroppo li portano a tornare sui propri passi perché compiute nella fretta o nella speranza di guadagnare soldi velocemente ma che solitamente falliscono dopo breve tempo. “Quante volte”, racconta Ethel, “i ragazzi vengono a chiedermi di essere tolti dal progetto perché hanno intenzione di sposarsi o perché vogliono cercarsi un lavoro ed emigrare o le ragazze perché sono incinte e non possono più frequentare la scuola perché nessuno le aiuta con il bambino e le faccende domestiche. Ciò che accade è che dopo qualche mese, specialmente le ragazze, ricompaiono pregandomi di essere riaccettate nel sostegno a distanza perché il matrimonio è fallito, il marito è sparito o è sempre ubriaco e le picchia oppure non ha trovato lavoro e non riuscendo a mantenere la famiglia è emigrato in città e non si hanno più notizie così che sono costrette a tornare dalla famiglia adottiva che deve riprendersi in carico lei e il bambino, insomma situazioni che purtroppo non sono saltuarie ma si verificano quotidianamente. Per non parlare delle ragazze che restano incinte a causa di violenze (spesso il tragitto che conduce dalla capanna alla scuola è lungo parecchi kilometri ed è facile cadere vittime di malintenzionati) che oltre a portare il peso di tale umiliazione, non riescono più a frequentare la scuola.” Le ragazze inoltre hanno anche il compito di svolgere le faccende domestiche all’interno della famiglia e il lavoro nei campi, soprattutto se mancano i genitori, cosicchè diventa davvero difficile avere del tempo “libero” per lo studio.
Purtroppo la scuola non è contemplata come investimento a lungo termine nelle vite di questi ragazzi dal momento che la logica corrente, dettata dalle necessità, è quella di pensare a ciò che può portare ad un guadagno immediato e a breve termine per sfamare i fratelli o i nonni. Ciò spiega il forte tasso di insuccesso scolastico a cui si assiste nonostante l’impegno del progetto nel pagamento delle tasse scolastiche. È vero che nell’ultimo anno si è assistito ad un leggero incremento nella quantità di ragazzi promossi rispetto agli anni passati ma è anche vero che rimane comunque una percentuale piuttosto bassa ancora da incrementare.
Così nell’ottica di rispondere alle difficoltà con cui questi ragazzi costantemente si trovano a dover fare i conti tra cui soprattutto quella di crescere orfani all’interno di una famiglia composta da soli nonni che talvolta per retaggio culturale o semplicemente per necessità non favoriscono la formazione scolastica dei propri nipoti, si è sentita l’esigenza di fornire un servizio differente all’interno dell’Orphans Care che non fosse solo di assistenza economica ma che ricoprisse un ruolo più attivo. A breve sarà operativo il nuovo ufficio distaccato, Vocational Promotional Office, che si occuperà di seguire gli orfani frequentanti la scuola secondaria e che attualmente sono più o meno settecento. Saranno operatori sociali malawiani già esperti nel campo a penetrare all’interno delle famiglie di questi ragazzi e nei villaggi al fine di implementare quella rete di aiuto già esistente composta da coloro che operano all’interno dell’Orphans Care ovvero i volontari che vivono nei villaggi, le famiglie che si prendono in carico l’orfano e l’ufficio orfani di Balaka con questo nuovo servizio che collaborerà strettamente anche con i servizi sociali locali. Essi dovrebbero divenire delle figure di riferimento per l’accompagnamento di questi ragazzi in una fase importante della loro vita come quella del passaggio all’età adulta specialmente in un momento difficile come quello che sta vivendo ora l’Africa intera nel passaggio da tradizione a modernità, una transizione che vede lo scardinarsi di antiche tradizioni e l’affermarsi di nuove tendenze. Essere orfani in una fase così delicata e crescere con i nonni significa perdere quelle figure cruciali di riferimento come il padre e la madre che per parte della loro vita hanno già vissuto questo passaggio e che purtroppo non possono dare il proprio contributo alla crescita dei figli e alle loro scelte di vita ma che anzi, con la loro morte li lasciano ad affrontare situazioni a volte insormontabili oltre a lasciare un vuoto affettivo incolmabile.
“Guarda Ethel”, dice Elisabetta sulla via del ritorno, “avevi ragione, si son fermati a comprare la farina, chissà da quanti giorni mangiavano solo mango”.
Una forte ricarica
di Marco Pasinato
Andando a Lourdes in aprile sarà molto facile incontrare Veronica Frinault, una giovane fisioterapista francese. Scopriamo perché.
Qual è, Veronica, il tuo legame con Lourdes?
Faccio parte dell’organizzazione chiamata “Ospitalità Monfortana” per questo partecipo da dieci anni al Pellegrinaggio organizzato dai Monfortani di Francia.
Che cos’è “l’Ospitalità Monfortana”?
Si potrebbe definire “l’anima del pellegrinaggio”! È un associazione nata in Francia nel 1950 sotto l’impulso dei Missionari Monfortani. Costituita da barellieri, infermieri e medici ha come duplice obiettivo: anzitutto una serie di iniziative stabili in favore di malati, handicappati, anziani e poveri, in particolare durante pellegrinaggi o raduni di animazione e formazione. Poi anche lo sviluppo del culto e della devozione mariana a livello spirituale e culturale. Tutto ciò è a sostegno dell’opera e dell’azione missionaria dei Padri Monfortani.
Quale è il tuo impegno in questa organizzazione?
Sono da poco diventata la responsabile del Centro che coinvolge la città di Rennes e provincia, uno dei 27 centri nazionali per un totale di 2000 infermieri, 1200 barellieri e una quarantina di medici, una ventina di cappellani e molti altri laici animatori spirituali: tutti insieme ci occupiamo della preparazione e della organizzazione del grande Pellegrinaggio Monfortano, che raccoglie ogni anno circa ottomila pellegrini a Lourdes l’ultima settimana di aprile.
Come definiresti l’esperienza del pellegrinaggio monfortano a Lourdes?
Il pellegrinaggio monfortano a Lourdes è una esperienza di Amore, condiviso in modo naturale tra tutti i pellegrini. È l’amore che ci fa ripartire ogni anno, in ricerca di salute, verità, felicità, fiducia, di … “Qualcuno”. È l’amore che ci fa raggiungere un luogo diverso da tutti gli altri. È l’amore che ci fa guardare l’altro e dedicarsi all’altro come a un amico anche se non lo conosciamo. È l’amore che ci fa scoprire un meglio la fede, l’importanza di Maria, una vita di Chiesa, la propria vocazione… È sempre l’amore che ci fa tornare a casa più aperti agli altri, più purificati dentro grazia alla preghiera e ai sacramenti, trasformati da ciò che abbiamo visto e vissuto. Tutto ciò è facilitato da un’ottima organizzazione, che va avanti da ben 60 anni, impregnata dello spirito di servizio e dello stile “mariano”; tanto caro a san Luigi di Montfort. Per noi volontari è una grazia che riceviamo in ogni pellegrinaggio e che ci sostiene lungo l’anno.
Come si svolge il pellegrinaggio?
Sono cinque giorni di rara intensità. Oltre alle grandi celebrazioni quotidiane come la processione eucaristica pomeridiana, la processione mariana coi “flambeaux” e la Messa internazionale il Mercoledì; abbiamo delle cerimonie particolari: la cerimonia di apertura, la celebrazione mariana. La celebrazione della Passione di Cristo, la Messa dell’unzione degli infermi e la celebrazione dell’invio. Siamo inoltre invitati a vivere la Via Crucis “per categorie”: pellegrini, infermieri, medici, giovani, etc. Senza dimenticare altri momenti come le conferenze a tema, l’ora di adorazione, tempi di silenzio personale, e momenti di animazione per gli ammalati.
Dopo tanti anni non c’è il pericolo della ripetitività?
Assolutamente no. Ogni anno il pellegrinaggio si snoda su un tema proposto dal Vescovo che presiede e dai vari cappellani: come una nuova porta aperta da Maria per prendere coscienza del Vangelo, della Chiesa e della nostra missione di Battezzati. Per quanto mi riguarda, dico sempre che anch’io, come il personaggio dei fumetti “Obelix”, sono caduta da piccola nella marmitta! Già i miei genitori facevano parte dell’associazione.
Mio padre dopo tanti anni di barelliere, ora ci va come “ammalato”, ma con il medesimo entusiasmo di un tempo! Per me è stato naturale coinvolgermi nell’esperienza del pellegrinaggio, sebbene mi sia chiesta se lo facevo solo per abitudine o se ne ero convinta personalmente: ho cominciato nel gruppo dei giovanissimi, poi come accompagnatrice dei giovani malati, degli adulti malati e poi via via fino a diventare la responsabile della vita di un centro cittadino. Ma non credo che il mio sia un caso eccezionale all’interno dell’associazione!
All’interno di questi impegni c’è un episodio che ti ha marcato?
Ce ne sono diversi, ma fra tutti direi l’incontro con le mamme dei ragazzi handicappati: per la loro straordinaria dedizione e il loro coraggio. Ricordo anche la testimonianza d’amore di una coppia di malati: il marito si preparava alla morte e la sua più grossa pena era quella di lasciare sua moglie da sola. Oppure quel volontario infermiere in lacrime davanti alla grotta di Lourdes, che mi confidava che erano due anni che non riusciva più a piangere.
Appello finale a dei potenziali pellegrini.
Sono convinta che l’esperienza del pellegrinaggio monfortano a Lourdes farebbe del bene a tutti. Lourdes è un luogo dove la solidarietà si vive in modo naturale in un clima di gioia e di condivisione. Ed è un’ottima occasione per fare una verifica della nostra vita in clima di “forte ricarica” spirituale. Un’avventura da cogliere al volo!
Insieme per il Malawi Onlus
di Santino Epis
L’eccessivo spazio mediatico riservato ad episodi di cronaca nera induce nell’opinione pubblica l’idea di una società pesantemente condizionata da una incontrastata regia del male. Non è proprio così. Fa più rumore un albero che cade di mille alberi che crescono. Quanti buoni alberi popolano la nostra società! L’Associazione Insieme per il Malawi Onlus è uno di questi.
Quando é nata l’Associazione Insieme per il Malawi Onlus?
Insieme per il Malawi Onlus nasce nell’aprile del 2006, dopo un’esperienza in una delle Missioni dei Missionari Monfortani in Malawi. Nel novembre del 2005, ad un gruppo di amici che già era solito andare in Missione, si unisce un gruppetto di persone nuove. Durante la permanenza nasce l’idea di dare tutti insieme un aiuto all’opera dei Missionari. Eravamo convinti che mettendo Insieme tutte le nostre energie avremmo fatto sicuramente meglio che agendo singolarmente. Nasce così l’associazione “Insieme per il Malawi Onlus”.
Insieme per il Malawi ha lo scopo di far conoscere le problematiche legate alle Missioni e di impegnarsi alla tutela, alla cura e allo sviluppo sociale, culturale e spirituale dei bambini, dei giovani e delle persone del Malawi. All’interno dell’Associazione aderiscono circa trecento Soci Sostenitori.
Quali sono state le tappe più importanti del cammino fin qui percorso dall’Associazione?
Dopo qualche esperienza in Missione, ci siamo resi conto che il nostro impegno non doveva limitarsi a realizzare strutture. Importante fu l’incontro con un Sacerdote Malawiano. All’interno dell’Associazione era nata la necessità di avere un referente sempre presente sul luogo della realizzazione dei progetti ed era scontato che nessuno dei componenti dell’Associazione potesse dare la sua disponibilità e si pensò che poteva essere importante dare l’incarico ad un giovane Malawiano. Questa fu una delle tappe più importanti. Possiamo anche dire che lui stesso ci spinse a riflettere sulle tante problematiche che riguardano la realizzazione di un progetto. Ci disse che era fondamentale coinvolgere le persone del posto nella realizzazione del progetto. Abbiamo anche avuto modo di conoscere il Vescovo della Diocesi di Mangochi dove operiamo. Stando con lui si ha una visione più ampia del lavoro dei tanti Missionari. Dal Vescovo abbiamo capito l’importanza creare realtà che durino nel tempo. Un’altra tappa importante è stata la continua ricerca di collaborazione con Gruppi e Associazioni che operano nel nostro territorio. Da qui nasce l’impegno con “Amici di Utale Malawi” e “Cuore Solidale Onlus”; tutti e tre ci stiamo impegnando su un unico progetto per il lebbrosario di Utale II.
Riteniamo indispensabile, in funzione di quanto abbiamo esposto, anche la formazione su temi riguardanti la solidarietà.
In quali aree si sviluppa l’impegno dell’Associazione?
Siamo un’Associazione giovane, ma non per questo priva di iniziative. In cantiere abbiamo diversi progetti e riguardano: - i bambini; per loro stiamo costruendo un Asilo. - i giovani; per due di essi è stato organizzato un corso di formazione. Alla fine di questo corso avranno la preparazione per seguire la realizzazione di nuovi progetti. Crediamo che la formazione dei giovani sia una tra le cose più importanti e possa dare loro l’inserimento nel campo lavorativo. - i lavoratori; per i più disagiati stiamo costruendo alcune casette, - gli ultimi; con “Amici di Utale” e “Cuore Solidale” un progetto per i Lebbrosi. Ogni progetto nasce per una necessità reale, a volte espressa dal Villaggio altre dai Missionari o dal Vescovo. Da queste necessità nasce un dialogo tra tante forze. Si costituisce come è capitato per alcune di queste iniziative un Comitato molto allargato dove ci sono i capi Villaggio, i responsabili delle Istituzioni, i Religiosi locali il nostro rappresentante permanente. Il Comitato si riunisce regolarmente durante la presenza dell’Associazione in Missione e continua il suo lavoro durante tutta la crescita del progetto. Prima che parta un‘iniziativa si discutono le varie problematiche e si chiede al Comitato una partecipazione attiva. Viene chiesta anche una collaborazione materiale di aiuto concreto agli abitanti del Villaggio, che generalmente si trasforma nella realizzazione di mattoni. Il Comitato stesso vigila sulla realizzazione del progetto e allo stesso viene data la responsabilità del futuro mantenimento e gestione. La cosa più importante per l’Associazione è il dialogo con il Comitato: è solamente dialogando che riusciamo ad entrare nella loro cultura, nei loro modi di fare, nelle loro usanze e noi impariamo a capire meglio ciò che facciamo. Inoltre anche alle persone del luogo interessa chi sei, come ti chiami, perché sei li. Si ricorderanno sempre di te. Ti riconosceranno anche dopo tantissimo tempo. Ad essi diciamo delle nostre fatiche, del nostro impegno e del nostro lavoro che facciamo in Italia per divulgare il progetto e le necessità. Più di una volta ci facciamo forza con quanto il Vescovo dice: “I nostri Africani nella loro sapienza ci dicono che “Kuthamanga sikufika” , “A correre non è che si arrivi” ed ancora “Pang’ono ndi pang’ono ndi mtolo”, alla lettera “un pò alla volta è un fascio”. Crediamo che il livello organizzativo per lo sviluppo dei programmi debba essere guidato dal tempo dedicato alla parola e al dialogo, dal non correre per poter entrare meglio nella loro cultura e dal coinvolgere più persone possibili perché si possa costruire un fascio. Indispensabile è il lavoro che facciamo sul nostro territorio; frequenti sono le manifestazione come mostre fotografiche, concerti, commedie dialettali, partecipazioni a manifestazioni sportive, mercatini dove cerchiamo di divulgare le problematiche legate al mondo delle Missioni.
Vi siete fatti un’idea di che cosa in concreto ha bisogno il Malawi perché possa uscire dall’attuale condizione di sottosviluppo?
È un argomento delicato dove per rispondere bisognerebbe avere un bagaglio di conoscenze storiche, sociali e religiose ampissimo. Noi non sappiamo dare una risposta, ma possiamo offrirvi alcune notizie per permettere a tutti di conoscere un po’ la storia di questa splendida terra, forse così quantomeno si inizierà a capirne le cause. Il Malawi ha 13.000.000 di abitanti. È uno degli Stati più poveri del mondo, questo è risaputo per noi, ma ancora in tanti non sanno nemmeno dell’esistenza di questo lembo di terra. La maggior parte della popolazione vive in zone rurali di agricoltura. Spesso le calamità naturali (la siccità o le troppe piogge) mettono in ginocchio l’economia. Forse(?)il 60% vive sotto la soglia della povertà. Il 30% vive in povertà assoluta. Il 6% ha accesso all’energia elettrica ed il 25% non ha accesso a fonti di acqua potabile. Metà della popolazione ha circa 14 anni. Il 19% è malato di HIV-AIDS. Il tasso di scolarizzazione è del 60%. Questi dati non sono sicuramente precisi e servono per dare un’idea della situazione del Malawi. Se guardiamo la storia; nel 1891 si costituì il Protettorato Britannico, nel 1964 ottenne l’indipendenza, nel 1994 dopo trenta anni di presidenza a vita di Kamuzu Banda si tennero le prime elezioni multipartitiche. Si dovette soffrire e lottare molto per arrivare alle elezioni multipartitiche; fece storia la lettera scritta dai Vescovi l’otto marzo 1992 letta in tutte le chiese dove i Vescovi spronavano la popolazione a far valere i diritti inalienabili per ogni uomo. Ne seguirono altre e nel maggio del 1994 avvennero le prime elezioni multipartitiche. Resta ancora impressa in molti di noi la frase contenuta nella lettera del marzo 1992 dove si diceva…… “Ogni uomo, poiché figlio di Dio, deve essere libero e rispettato”. Una storia tortuosa, dove per anni la corruzione ha messo le sue radici guidata da Kamuzu Banda dove i pochissimi ricchi (il Presidente e la sua banda) sono diventati sempre più ricchi e dove i poveri sono diventati inesorabilmente sempre più poveri. Di fronte a questi dati ci auguriamo tutti che il lungo cammino verso la democrazia multipartitica porti più giustizia, più informazione più uguaglianza.
Che messaggio vi sentite di dare ai lettori di un rivista missionaria?
Vale la pena di spendersi e di impegnarsi nel campo della Solidarietà. Non importa dove. Sono troppe le ingiustizie e le disuguaglianze che flagellano il così detto Terzo Mondo. Parlarne e impegnarsi aiuterà tutti a prendere coscienza. A chi non ha ancora vissuto un’esperienza in una Missione diciamo di avvicinarsi ad essa con il cuore in mano, con la semplicità e la voglia di ascoltare, solo così sarà possibile imparare e sfuggire alle tentazioni del nostro orgoglio di sentirsi bravi per aver donato qualcosa.
Veni Creator
di Basilio Gavazzeni
C’è una poesia che Czeslaw Milosz compose a Berkeley nel 1961, intitolata “Veni Creator”, in cui si chiede allo Spirito Santo di scendere “mostrandoti (oppure no) con una lingua di fiamma sul capo”. Il poeta ha bisogno di “segni visibili” che “possono essere soltanto umani”. “Lo Spirito Creatore, dunque, desti un uomo, non importa dove, non me, perché ho comunque il senso della decenza, così che guardandolo io possa ammirare Te”. Un grande poeta parla per tutti e lo Spirito che è il maestro più interiore della preghiera, anzi è un gemitìo di preghiera autentica dentro di noi, non cessa di rispondere.
Chi non si perde a circumnavigare il proprio ombelico e riconosce la realtà integrale deve ammettere che coloro che Charles Baudelaire definiva “i fari” (Les Phares) sono tutti debitori del Creator Spiritus, per lo splendore perenne che con i loro capolavori, dilatano sull’umanità, dai loro giorni attraverso i nostri verso quelli futuri. È vero che uno di essi, con voce di bronzo, indimenticabile, ha gridato: “Nulla di nuovo sotto il sole”. Ma un faro di oggi, Wislawa Szymborska, ti ha replicato, o Ecclesiaste, senza timore della tua grandezza: “Però Tu stesso sei nato nuovo sotto il sole. E il poema di cui sei autore è anch’esso nuovo sotto il sole, perché prima di Te non lo ha scritto nessuno. E nuovi sotto il sole sono tutti i Tuoi lettori”.
Si affaccia nel momento giusto la Szymborska, Nobel 1996, polacca come Milosz, Nobel 1980. Chi professa la ragione allargata, e il cattolico deve amarla se ascolta il Papa, non può non vedere che in questa poetessa vi è stampata una più vasta orma dello Spirito Creatore. Aprite le sue Opere che Pietro Marchesani ha curato amorosamente per Adelphi Edizioni. Da una lontana e vivida quiete domestica scende un ruscello di parole limpide, maturate, vere, persino impertinenti e giocose. Ecco, a solo esempio, la poesia contributo alla statistica: “Su 100 persone 52 ne sanno più delle altre, 49 sono soccorrevoli purché la cosa non duri molto, 4 o 5 sempre buone non sapendo fare diversamente, 18 propensi ad ammirare senza invidia, 77 sempre con la paura di qualcuno o qualcosa, 20 forse dotati per la felicità, oltre 50 innocui ma che imbarbariscono nella folla, crudeli, se costretti dalle circostanze, è meglio non saperlo neppure approssimativamente, più o meno di egual numero quelli col senno di poi e quelli col senno di prima, 40 tutti cose, 83 presto o tardi ripiegati, dolenti e senza torcia nel buio, 99 degni di compassione, 100 su 100 mortali. Numero al momento invariato”.
Altro faro? Per l’ottantesimo anniversario dello Stato della Città del Vaticano, il febbraio scorso, nell’aula Paolo VI, davanti a Benedetto XVI, è stato eseguito antologicamente il Messiah di Händel. Chi non è scosso da un brivido quando ne ode l’Alleluia in re maggiore che lo conclude in altissima gloria? Il grande musicista settecentesco confidò di non sapere come avesse composto quel brano: “Con il corpo o senza corpo: Dio solo lo sa”. Citava san Paolo che scriveva di una sua estasi (2 Corinzi 12,3). Il Messiah è un oratorio per istruire la mente ed elevare l’anima, oro cristologico in musica, sostanziato di un Nuovo Testamento che assume mirabilmente tutta la profezia dell’Antico Testamento, solenne e armonica architettura tripartita sui misteri di salvezza dell’Incarnazione, della Passione e Morte, e della Risurrezione di Cristo. Il filosofo Friedrich Schleiermacher, ricorda Gianfranco Ravasi, ebbe a definire questa opera händeliana: “Un annuncio compendioso dell’intero cristianesimo”.
Quest’anno ricorre il bicentenario della nascita di Charles Darwin (1809-1882), faro, anche lui, a ben rifletterci, se non lo regaliamo all’ideologia dello scientismo e ne raccogliamo gli stimoli positivi e confermiamo le distanze dovute. Di educazione cristiana messa da parte, mai ateo, nel senso di negare Dio, più propriamente agnostico, Darwin. Sulla scorta delle osservazioni naturalistiche accumulate dal dicembre 1831 all’ottobre 1836, nel viaggio intorno al globo sul brigantino Beagle, concluse che la varietà dei viventi è riferibile alla varietà degli ambienti, non ad atti creativi di Dio. Isolamento, competizione con altre specie, clima, e via dicendo, realizzano una selezione naturale fra i viventi che non è solo conservativa ma anche creativa perché favorisce nuove combinazioni adattive. La sua The origin of species (1859) picconò la teologia legata all’interpretazione letterale della Genesi che considerava la natura come un perfetto congegno ideato e realizzato dal Creatore. Poi nell’opera “Le origini dell’uomo” (1871), Darwin sostenne che tra la mente dell’uomo e quella degli animali più evoluti vi è solo una differenza di grado, non di qualità. E la deriva riduzionista e materialista del suo pensiero a sostegno della comune ascendenza non si fermò lì. “Charles Darwin è una personalità complessa con luci e ombre” scrive Fiorenzo Facchini. Aveva sofferto molto per la morte della figlia bambina. Fu un immenso naturalista. Il suo contributo, per quanto abusato anti religiosamente da non pochi, spigrì la teologia della creazione spingendola a elaborare una visione dinamica del rapporto fra Dio e natura dal quale, senza dubbio, non può essere esclusa l’evoluzione. Bisogna rifiutare invece il riduzionismo antropologico di Darwin: la comparsa dell’uomo costituisce un salto ontologico, per dirla con Giovanni Paolo II; l’uomo ha coscienza di sé, può contrastare la selezione naturale, non è signoreggiato dall’ambiente, anzi ne è il signore vicario di quello massimo.
Ultimo faro. A nessuno sfugge che molti vanno per musei. Capita di udire e leggere opinioni sui diversi atteggiamenti dei visitatori che non sono tanto attribuibili all’estrazione sociale e culturale o a componenti psicologiche quanto piuttosto al mutamento personale che sopravviene nell’epifania delle opere. Che cosa osservai attorno a me, quando all’inizio dell’anno ebbi la ventura di fruire della mostra di Giovanni Bellini allestita nelle Scuderie del Quirinale? Che cosa rivelava la lunga fila di visitatori che, nello stesso giorno, mi impedì di vedere il Crocifisso ritrovato in legno dipinto attribuito al giovane Michelangelo che era esposto a Montecitorio, nella Camera dei deputati? Che cosa ho colto nella testimonianza di chi l’ha visto? Ho capito che si va alle mostre come a un pellegrinaggio, attendendo doni di pace e di consolazione, di speranza e forza rigenerata. I pellegrini vengono assunti nell’aura dell’opera esposta che pur permane nella sua alterità, in un incontro totale cui non mancano le lacrime. Sfoglio, guardo e riguardo, incantato e commosso, il catalogo del Crocifisso ritrovato di cui Federico Zeri affermava già nel 2004: “Se non è Michelangelo è Dio”. E folgorati come il maestro dalla sua bellezza suprema sono stati Umberto Baldini, Giancarlo Gentilini, Massimo Ferretti, Luciano Bellosi, Antonio Paolucci, Quintavalle, Verdon, Sgarbi e Bonsanti. Ecco un altro faro rifornito dal Creator Spiritius: Michelangelo. Ma soprattutto ecco il faro per eccellenza, che dico? Il sole, la luce, proprio Lui, il Cristo in croce, il nostro Amore, davanti al quale gridare con Pascal: Dignior plagis quam osculis, non timeo, quia amo: degno più di percosse che di baci, non temo perché amo.
Conflitti dimenticati
di Daniele Rocchetti
Sono diminuiti, nel corso degli ultimi dieci anni, i conflitti nel mondo (erano 24 all’inizio del 2008), ma aumentano quelli interni ai singoli Stati. Tutto ciò con poca attenzione dei media e scarso interesse da parte degli italiani. “La povertà rende i Paesi più vulnerabili sia alle calamità naturali che ai conflitti bellici” afferma la terza ricerca sui conflitti dimenticati intitolata “Nell’occhio del ciclone”, realizzata da Caritas italiana in collaborazione con Famiglia Cristiana e Il Regno, presentata nello scorso mese di gennaio a Roma. Nel decennio 1990/2000, 17 dei 33 Paesi più poveri del mondo hanno subito guerre civili. Secondo le statistiche più attendibili, si stima la presenza di circa 300 gruppi armati attivi (guerriglie, milizie ed entità paramilitari), con scopi politici o ideologici riconosciuti.
Cala la nebbia aumenta l’oblio
La ricerca ha anche previsto un sondaggio sulla popolazione italiana, da cui si apprende che il 20% degli italiani non è in grado di indicare alcun conflitto armato del pianeta risalente agli ultimi cinque anni. Vengono rimosse guerre come quella dell’Iraq, dell’Afghanistan, della Palestina/Israele. Rispetto alla stessa rilevazione effettuata nel 2004, la percentuale di oblio aumenta di ben tre punti. Le nuove generazioni sono quelle meno informate: il 30% dei giovani non ricorda alcuna guerra. E questo nonostante l’utilizzo di Internet per informarsi sui conflitti sia passato, negli ultimi quattro anni, dal 6 al 16%. Sul versante ambientale, il 33% degli italiani ricorda lo Tsunami di fine 2004, ma appena 23 italiani su 100 indicano tra i disastri il terremoto in Cina (maggio 2008), che ha provocato una vera e propria ecatombe.
I conflitti ambientali
Uno degli elementi che emergono dalla ricerca risiede nella complessità delle attuali situazioni di conflitto ed emergenza umanitaria. Le tendenze ci parlano di una vulnerabilità che coinvolge in modo sempre più diffuso, non più limitata al “campo di battaglia”: guerriglie e terrorismo internazionale portano la guerra nel cuore dei nuclei urbani, negli spazi domestici, mentre persistono sacche di violenza nelle periferie del mondo, nelle zone rurali, determinando spostamenti di grandi masse di profughi, rifugiati e sfollati interni. In questo modo, la linea tra combattenti e civili sfuma, e spesso le fasce più socialmente vulnerabili della popolazione diventano anche quelle più colpite dalla violenza, se non un’arma della violenza stessa. Uno degli indicatori della complessità risiede nel crescente numero di situazioni in cui si combinano disastri naturali, violenza e guerra. Tali situazioni, in un prossimo futuro, potrebbero mettere a repentaglio la stabilità di molte aree del mondo, fungendo anche da innesco per nuovi conflitti armati. Da un lato i disastri ambientali costituiscono, di per sé, una situazione di conflitto e di rischio per la vulnerabilità e la sopravvivenza. In altri casi, un’emergenza di tipo ambientale può determinare una situazione di conflitto armato: si pensi agli effetti indotti dai cambiamenti climatici, dai disastri naturali e dalla lotta per il controllo delle risorse naturali ed energetiche. In particolare, acqua e petrolio rappresentano gli esempi più eclatanti. Si pensi al conflitto per il controllo delle rendite petrolifere nel Delta del Niger, oppure alle lotte causate o aggravate dalle tensioni idriche (come nel caso della Mauritania, del Mali, dell’Etiopia, dei territori palestinesi). Anche altri tipi di risorse possono scatenare una situazione di conflitto, si pensi alla lotta per i diamanti in Angola e Sierra Leone, al traffico di cocaina in Colombia, al mercato dell’oppio in Afghanistan, ecc.
Conflitti e media
La dimensione dei media è stata sondata attraverso un monitoraggio su radio e televisioni italiane
e su alcune testate giornalistiche internazionali presenti su Internet. Le notizie sui tre conflitti/disastri «dimenticati» (Sudan, Pakistan, Colombia), corrispondono allo 0,3% di tutte le trasmissioni radio-televisive trasmesse in Italia dal luglio 2004 al dicembre 2007. Le situazioni più note (Tsunami, uragano Katrina) raggiungono invece valori doppiamente superiori, pari allo 0,6%. I dati confermano l’esistenza di situazioni di emergenza umanitaria dimenticate da parte dei media radio-televisivi italiani, con una piccola sorpresa, costituita dalla buona copertura radiotelevisiva registrata dal Pakistan. L’attenzione mediatica è più forte quando viene rilevato un evento tragico (ambientale e/o umanitario), che diventa notizia per il breve periodo di apparizione della notizia.
Alcune sfide e riflessioni
La sfida lanciata dalla lettura del testo - che andrebbe letto e diffuso nelle nostre comunità cristiane - conduce motivi di speranza insieme a motivi di preoccupazione, sia a livello generale che ecclesiale. Se il tema dell’‘emergenza educativa’ non può che essere ribadito, ecco che nella ridefinizione di proposte e programmi, occorre sottolineare la necessità di un’impostazione basata su quei concetti di ‘globalizzazione della solidarietà’ e ‘responsabilità collettiva’ tanto cari agli ultimi pontefici. Data la complessità dello scenario, appare sempre più necessaria un’azione attiva, tenace, concreta e operosa, da parte di tutti, nessuno escluso. È troppo importante la sfida, perché qualcuno si nasconda, si defili, si sottragga alle proprie responsabilità personali e collettive, anche solo delegandole, cedendo all’inerzia, o peggio, all’indifferenza. Tra tutte le denunce, ne citiamo una. E lo facciamo con le parole di mons.Vittorio Nozza, Direttore della Caritas italiana. “È quella forte e ferma della follia insensata della guerra e dello spreco dissennato delle risorse per la produzione e il commercio delle armi. Esemplari in questo senso i reiterati appelli di Benedetto XVI. Occorre però associare ed unire le forze, anche con strumenti di partecipazione popolare attiva, come ad esempio i boicottaggi e le forme di espressione del dissenso più deciso, concertato e scandalizzato. Quello della veemenza di Gesù coi mercanti del tempio. Non dimentichiamo che la radicalità dell’episodio evangelico si colloca tuttavia al vertice opposto rispetto al fondamentalismo identitario, responsabile di tanti conflitti nel mondo: - l’una, forte dei propri convincimenti, solida nei propri valori, è improntata alla pagina delle beatitudini, fonda le sue radici sull’inno alla carità, si rispecchia nella logica della croce (e della risurrezione), all’apertura ai non eletti; - l’altro è chiuso ed incapace di confronto. Questa la sfida culturale del futuro: - chiusura o apertura, - pregiudizio o dialogo? A noi la scelta!”.
Missionari monfortani a convegno
I Missionari Monfortani del Nord Italia, nei giorni 17 e 18 febbraio, si sono ritrovati nella comunità di Redona di Bergamo per un convegno sul tema dell’evangelizzazione. L’occasione è data dalla celebrazione del 50° anniversario della Consacrazione dell’Italia a Maria, avvenuta a Catania il 13 settembre 1959, a conclusione del XVI Congresso Eucaristico Nazionale. È stato un evento ecclesiale importante: la prima proposta pastorale decisa dalla neonata Conferenza Episcopale Italiana, approvata da Papa Giovanni XXIII agli inizi del suo pontificato. Tutti sanno che il Santuario di Trieste, dedicato a Maria Madre e Regina, è stato costruito per ricordare questo Atto di consacrazione a Maria, già auspicato dai vescovi italiani in una supplica a Leone XIII, in occasione del Congresso Mariano Nazionale celebrato a Torino nel settembre 1898. I Monfortani hanno avuto un ruolo importante nella preparazione di questo evento. La loro collaborazione si è concretizzata con la partecipazione all’ormai famosa “Peregrinatio Mariae”, il pellegrinaggio della statua della Madonna di Fatima nelle principali città italiane, deciso dalla CEI per preparare gli italiani a compiere l’Atto di consacrazione. Anche a Bergamo, il 16 giugno 1959, Il passaggio della piccola statua della Madonna di Fatima, trasportata in elicottero, ha visto un incredibile concorso di folla festante. 40 mila fedeli sono accorsi allo stadio Comunale dove Mons. G. Spiazzi, vescovo di Bergamo, ha consacrato a Maria l’intera diocesi. L’elicottero era atterrato sul piazzale della Fara, tra una folla commossa sventolante fazzoletti con acclamazioni di gioia e di preghiera, come testimoniano le foto dell’epoca. “Pellegrinaggio delle Meraviglie”: è il titolo del libro che ha ricostruito la cronaca delle indimenticabili giornate della “Peregrinatio Mariae”.
Il 50° di questo Atto di consacrazione è solo l’occasione per il suddetto convegno dei Monfortani del Nord Italia. In realtà da tempo le comunità monfortane d’Italia stanno riflettendo sulle forme tradizionali della loro speciale missione nella Chiesa e, soprattutto, sono impegnati a trovare motivazioni nuove e nuove forme per rilanciarla nel contesto della pastorale italiana. Le nuove sfide presenti oggi nella società italiana hanno imposto alla Chiesa, in generale, in particolare alle comunità di religiosi impegnati nell’evangelizzazione, il dovere di una seria riflessione per trovare risposte attraverso una pastorale che porti davvero le comunità cristiane verso un concreto rinnovamento di vita. Nella diocesi di Bergamo i religiosi monfortani sono presenti dal 1919. La loro presenza è stata vista da Mons. Luigi Maria Marelli, vescovo di Bergamo dell’epoca, come un evento provvidenziale. Da allora i monfortani, oltre che curare la formazione dei seminaristi, si sono resi disponibili per una collaborazione nella cura pastorale della diocesi. Sono da ricordare in particolare le “Missioni al popolo”, una forma concreta di evangelizzazione sperimentata dal Fondatore, san Luigi Maria da Montfort, finalizzata ad un autentico rinnovamento di vita cristiana.
Il convegno si è aperto con una relazione di Padre Santino Epis sulle varie tappe che hanno portato la Chiesa d’Italia alla consacrazione al Cuore Immacolato di Maria. È stata un’occasione per rivisitare la storia di questo evento, ma anche per evidenziarne l’attualità e l’efficacia pastorale. Due successivi interventi di Mons. Giacomo Panfilo, Parroco di Clusone, hanno contribuito a mettere a fuoco il tema centrale del convegno ispirato al noto versetto del Vangelo di Giovanni: “Fate quello che vi dirà”. Padre Santino Brembilla, Superiore Generale dei Monfortani, ha poi parlato delle attese e delle prospettive della missione nella Congregazione. Due dibattiti sono serviti a fare il punto sui nuovi e antichi percorsi della missione monfortana in Italia.
Al Convegno hanno partecipato alcuni rappresentanti delle comunità monfortane del Nord, ma anche alcuni laici che condividono il carisma della missione monfortana.