di Basilio Gavazzeni
C’è una poesia che Czeslaw Milosz compose a Berkeley nel 1961, intitolata “Veni Creator”, in cui si chiede allo Spirito Santo di scendere “mostrandoti (oppure no) con una lingua di fiamma sul capo”. Il poeta ha bisogno di “segni visibili” che “possono essere soltanto umani”. “Lo Spirito Creatore, dunque, desti un uomo, non importa dove, non me, perché ho comunque il senso della decenza, così che guardandolo io possa ammirare Te”. Un grande poeta parla per tutti e lo Spirito che è il maestro più interiore della preghiera, anzi è un gemitìo di preghiera autentica dentro di noi, non cessa di rispondere.
Chi non si perde a circumnavigare il proprio ombelico e riconosce la realtà integrale deve ammettere che coloro che Charles Baudelaire definiva “i fari” (Les Phares) sono tutti debitori del Creator Spiritus, per lo splendore perenne che con i loro capolavori, dilatano sull’umanità, dai loro giorni attraverso i nostri verso quelli futuri. È vero che uno di essi, con voce di bronzo, indimenticabile, ha gridato: “Nulla di nuovo sotto il sole”. Ma un faro di oggi, Wislawa Szymborska, ti ha replicato, o Ecclesiaste, senza timore della tua grandezza: “Però Tu stesso sei nato nuovo sotto il sole. E il poema di cui sei autore è anch’esso nuovo sotto il sole, perché prima di Te non lo ha scritto nessuno. E nuovi sotto il sole sono tutti i Tuoi lettori”.
Si affaccia nel momento giusto la Szymborska, Nobel 1996, polacca come Milosz, Nobel 1980. Chi professa la ragione allargata, e il cattolico deve amarla se ascolta il Papa, non può non vedere che in questa poetessa vi è stampata una più vasta orma dello Spirito Creatore. Aprite le sue Opere che Pietro Marchesani ha curato amorosamente per Adelphi Edizioni. Da una lontana e vivida quiete domestica scende un ruscello di parole limpide, maturate, vere, persino impertinenti e giocose. Ecco, a solo esempio, la poesia contributo alla statistica: “Su 100 persone 52 ne sanno più delle altre, 49 sono soccorrevoli purché la cosa non duri molto, 4 o 5 sempre buone non sapendo fare diversamente, 18 propensi ad ammirare senza invidia, 77 sempre con la paura di qualcuno o qualcosa, 20 forse dotati per la felicità, oltre 50 innocui ma che imbarbariscono nella folla, crudeli, se costretti dalle circostanze, è meglio non saperlo neppure approssimativamente, più o meno di egual numero quelli col senno di poi e quelli col senno di prima, 40 tutti cose, 83 presto o tardi ripiegati, dolenti e senza torcia nel buio, 99 degni di compassione, 100 su 100 mortali. Numero al momento invariato”.
Altro faro? Per l’ottantesimo anniversario dello Stato della Città del Vaticano, il febbraio scorso, nell’aula Paolo VI, davanti a Benedetto XVI, è stato eseguito antologicamente il Messiah di Händel. Chi non è scosso da un brivido quando ne ode l’Alleluia in re maggiore che lo conclude in altissima gloria? Il grande musicista settecentesco confidò di non sapere come avesse composto quel brano: “Con il corpo o senza corpo: Dio solo lo sa”. Citava san Paolo che scriveva di una sua estasi (2 Corinzi 12,3). Il Messiah è un oratorio per istruire la mente ed elevare l’anima, oro cristologico in musica, sostanziato di un Nuovo Testamento che assume mirabilmente tutta la profezia dell’Antico Testamento, solenne e armonica architettura tripartita sui misteri di salvezza dell’Incarnazione, della Passione e Morte, e della Risurrezione di Cristo. Il filosofo Friedrich Schleiermacher, ricorda Gianfranco Ravasi, ebbe a definire questa opera händeliana: “Un annuncio compendioso dell’intero cristianesimo”.
Quest’anno ricorre il bicentenario della nascita di Charles Darwin (1809-1882), faro, anche lui, a ben rifletterci, se non lo regaliamo all’ideologia dello scientismo e ne raccogliamo gli stimoli positivi e confermiamo le distanze dovute. Di educazione cristiana messa da parte, mai ateo, nel senso di negare Dio, più propriamente agnostico, Darwin. Sulla scorta delle osservazioni naturalistiche accumulate dal dicembre 1831 all’ottobre 1836, nel viaggio intorno al globo sul brigantino Beagle, concluse che la varietà dei viventi è riferibile alla varietà degli ambienti, non ad atti creativi di Dio. Isolamento, competizione con altre specie, clima, e via dicendo, realizzano una selezione naturale fra i viventi che non è solo conservativa ma anche creativa perché favorisce nuove combinazioni adattive. La sua The origin of species (1859) picconò la teologia legata all’interpretazione letterale della Genesi che considerava la natura come un perfetto congegno ideato e realizzato dal Creatore. Poi nell’opera “Le origini dell’uomo” (1871), Darwin sostenne che tra la mente dell’uomo e quella degli animali più evoluti vi è solo una differenza di grado, non di qualità. E la deriva riduzionista e materialista del suo pensiero a sostegno della comune ascendenza non si fermò lì. “Charles Darwin è una personalità complessa con luci e ombre” scrive Fiorenzo Facchini. Aveva sofferto molto per la morte della figlia bambina. Fu un immenso naturalista. Il suo contributo, per quanto abusato anti religiosamente da non pochi, spigrì la teologia della creazione spingendola a elaborare una visione dinamica del rapporto fra Dio e natura dal quale, senza dubbio, non può essere esclusa l’evoluzione. Bisogna rifiutare invece il riduzionismo antropologico di Darwin: la comparsa dell’uomo costituisce un salto ontologico, per dirla con Giovanni Paolo II; l’uomo ha coscienza di sé, può contrastare la selezione naturale, non è signoreggiato dall’ambiente, anzi ne è il signore vicario di quello massimo.
Ultimo faro. A nessuno sfugge che molti vanno per musei. Capita di udire e leggere opinioni sui diversi atteggiamenti dei visitatori che non sono tanto attribuibili all’estrazione sociale e culturale o a componenti psicologiche quanto piuttosto al mutamento personale che sopravviene nell’epifania delle opere. Che cosa osservai attorno a me, quando all’inizio dell’anno ebbi la ventura di fruire della mostra di Giovanni Bellini allestita nelle Scuderie del Quirinale? Che cosa rivelava la lunga fila di visitatori che, nello stesso giorno, mi impedì di vedere il Crocifisso ritrovato in legno dipinto attribuito al giovane Michelangelo che era esposto a Montecitorio, nella Camera dei deputati? Che cosa ho colto nella testimonianza di chi l’ha visto? Ho capito che si va alle mostre come a un pellegrinaggio, attendendo doni di pace e di consolazione, di speranza e forza rigenerata. I pellegrini vengono assunti nell’aura dell’opera esposta che pur permane nella sua alterità, in un incontro totale cui non mancano le lacrime. Sfoglio, guardo e riguardo, incantato e commosso, il catalogo del Crocifisso ritrovato di cui Federico Zeri affermava già nel 2004: “Se non è Michelangelo è Dio”. E folgorati come il maestro dalla sua bellezza suprema sono stati Umberto Baldini, Giancarlo Gentilini, Massimo Ferretti, Luciano Bellosi, Antonio Paolucci, Quintavalle, Verdon, Sgarbi e Bonsanti. Ecco un altro faro rifornito dal Creator Spiritius: Michelangelo. Ma soprattutto ecco il faro per eccellenza, che dico? Il sole, la luce, proprio Lui, il Cristo in croce, il nostro Amore, davanti al quale gridare con Pascal: Dignior plagis quam osculis, non timeo, quia amo: degno più di percosse che di baci, non temo perché amo.
lunedì 23 marzo 2009
Veni Creator
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Rivista Apostolo di Maria
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