di Daniele Rocchetti
Sono diminuiti, nel corso degli ultimi dieci anni, i conflitti nel mondo (erano 24 all’inizio del 2008), ma aumentano quelli interni ai singoli Stati. Tutto ciò con poca attenzione dei media e scarso interesse da parte degli italiani. “La povertà rende i Paesi più vulnerabili sia alle calamità naturali che ai conflitti bellici” afferma la terza ricerca sui conflitti dimenticati intitolata “Nell’occhio del ciclone”, realizzata da Caritas italiana in collaborazione con Famiglia Cristiana e Il Regno, presentata nello scorso mese di gennaio a Roma. Nel decennio 1990/2000, 17 dei 33 Paesi più poveri del mondo hanno subito guerre civili. Secondo le statistiche più attendibili, si stima la presenza di circa 300 gruppi armati attivi (guerriglie, milizie ed entità paramilitari), con scopi politici o ideologici riconosciuti.
Cala la nebbia aumenta l’oblio
La ricerca ha anche previsto un sondaggio sulla popolazione italiana, da cui si apprende che il 20% degli italiani non è in grado di indicare alcun conflitto armato del pianeta risalente agli ultimi cinque anni. Vengono rimosse guerre come quella dell’Iraq, dell’Afghanistan, della Palestina/Israele. Rispetto alla stessa rilevazione effettuata nel 2004, la percentuale di oblio aumenta di ben tre punti. Le nuove generazioni sono quelle meno informate: il 30% dei giovani non ricorda alcuna guerra. E questo nonostante l’utilizzo di Internet per informarsi sui conflitti sia passato, negli ultimi quattro anni, dal 6 al 16%. Sul versante ambientale, il 33% degli italiani ricorda lo Tsunami di fine 2004, ma appena 23 italiani su 100 indicano tra i disastri il terremoto in Cina (maggio 2008), che ha provocato una vera e propria ecatombe.
I conflitti ambientali
Uno degli elementi che emergono dalla ricerca risiede nella complessità delle attuali situazioni di conflitto ed emergenza umanitaria. Le tendenze ci parlano di una vulnerabilità che coinvolge in modo sempre più diffuso, non più limitata al “campo di battaglia”: guerriglie e terrorismo internazionale portano la guerra nel cuore dei nuclei urbani, negli spazi domestici, mentre persistono sacche di violenza nelle periferie del mondo, nelle zone rurali, determinando spostamenti di grandi masse di profughi, rifugiati e sfollati interni. In questo modo, la linea tra combattenti e civili sfuma, e spesso le fasce più socialmente vulnerabili della popolazione diventano anche quelle più colpite dalla violenza, se non un’arma della violenza stessa. Uno degli indicatori della complessità risiede nel crescente numero di situazioni in cui si combinano disastri naturali, violenza e guerra. Tali situazioni, in un prossimo futuro, potrebbero mettere a repentaglio la stabilità di molte aree del mondo, fungendo anche da innesco per nuovi conflitti armati. Da un lato i disastri ambientali costituiscono, di per sé, una situazione di conflitto e di rischio per la vulnerabilità e la sopravvivenza. In altri casi, un’emergenza di tipo ambientale può determinare una situazione di conflitto armato: si pensi agli effetti indotti dai cambiamenti climatici, dai disastri naturali e dalla lotta per il controllo delle risorse naturali ed energetiche. In particolare, acqua e petrolio rappresentano gli esempi più eclatanti. Si pensi al conflitto per il controllo delle rendite petrolifere nel Delta del Niger, oppure alle lotte causate o aggravate dalle tensioni idriche (come nel caso della Mauritania, del Mali, dell’Etiopia, dei territori palestinesi). Anche altri tipi di risorse possono scatenare una situazione di conflitto, si pensi alla lotta per i diamanti in Angola e Sierra Leone, al traffico di cocaina in Colombia, al mercato dell’oppio in Afghanistan, ecc.
Conflitti e media
La dimensione dei media è stata sondata attraverso un monitoraggio su radio e televisioni italiane
e su alcune testate giornalistiche internazionali presenti su Internet. Le notizie sui tre conflitti/disastri «dimenticati» (Sudan, Pakistan, Colombia), corrispondono allo 0,3% di tutte le trasmissioni radio-televisive trasmesse in Italia dal luglio 2004 al dicembre 2007. Le situazioni più note (Tsunami, uragano Katrina) raggiungono invece valori doppiamente superiori, pari allo 0,6%. I dati confermano l’esistenza di situazioni di emergenza umanitaria dimenticate da parte dei media radio-televisivi italiani, con una piccola sorpresa, costituita dalla buona copertura radiotelevisiva registrata dal Pakistan. L’attenzione mediatica è più forte quando viene rilevato un evento tragico (ambientale e/o umanitario), che diventa notizia per il breve periodo di apparizione della notizia.
Alcune sfide e riflessioni
La sfida lanciata dalla lettura del testo - che andrebbe letto e diffuso nelle nostre comunità cristiane - conduce motivi di speranza insieme a motivi di preoccupazione, sia a livello generale che ecclesiale. Se il tema dell’‘emergenza educativa’ non può che essere ribadito, ecco che nella ridefinizione di proposte e programmi, occorre sottolineare la necessità di un’impostazione basata su quei concetti di ‘globalizzazione della solidarietà’ e ‘responsabilità collettiva’ tanto cari agli ultimi pontefici. Data la complessità dello scenario, appare sempre più necessaria un’azione attiva, tenace, concreta e operosa, da parte di tutti, nessuno escluso. È troppo importante la sfida, perché qualcuno si nasconda, si defili, si sottragga alle proprie responsabilità personali e collettive, anche solo delegandole, cedendo all’inerzia, o peggio, all’indifferenza. Tra tutte le denunce, ne citiamo una. E lo facciamo con le parole di mons.Vittorio Nozza, Direttore della Caritas italiana. “È quella forte e ferma della follia insensata della guerra e dello spreco dissennato delle risorse per la produzione e il commercio delle armi. Esemplari in questo senso i reiterati appelli di Benedetto XVI. Occorre però associare ed unire le forze, anche con strumenti di partecipazione popolare attiva, come ad esempio i boicottaggi e le forme di espressione del dissenso più deciso, concertato e scandalizzato. Quello della veemenza di Gesù coi mercanti del tempio. Non dimentichiamo che la radicalità dell’episodio evangelico si colloca tuttavia al vertice opposto rispetto al fondamentalismo identitario, responsabile di tanti conflitti nel mondo: - l’una, forte dei propri convincimenti, solida nei propri valori, è improntata alla pagina delle beatitudini, fonda le sue radici sull’inno alla carità, si rispecchia nella logica della croce (e della risurrezione), all’apertura ai non eletti; - l’altro è chiuso ed incapace di confronto. Questa la sfida culturale del futuro: - chiusura o apertura, - pregiudizio o dialogo? A noi la scelta!”.
lunedì 23 marzo 2009
Conflitti dimenticati
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Rivista Apostolo di Maria
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